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Pull my Daisy (Tira la mia margherita)

Regia di Robert Frank vedi scheda film

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La recensione su Pull my Daisy (Tira la mia margherita)

di EightAndHalf
6 stelle

Incarnazione della mitica Beat Generation, Pull my Daisy è il classico esempio di cinema letterario, o meglio, cinema poco cinematografico e molto letterario. La voce di Jack Kerouac, quanto mai narrativa di immagini che certo non parlano da sole ma che nascono fuse con la voice off, offre allo spettatore la visione di uno di quegli appartamenti che non sembrano tanto lontani dalle abitazioni della New Hollywood alla Richard Lester e dal Free Cinema britannico alla Karel Reisz/Tony Richardson, anguste abitazioni con illuminazione artificiale forte e accecante e tavoli su cui confrontarsi sui massimi sistemi della poesia, sempre sulla scia di un comportamento "beat", quindi in modo confusionario, anarchico, fatto di libere associazioni. "Apollinaire, Apollinaire, hai mai letto Apollinaire?". Ne escono moltissimi nomi di vari poeti (tra cui anche un Auden poeta che "pensa di essere poeta") e un confronto al vetriolo ubriaco tra tutti quanti i poeti e un vescovo, ospite illustre della piccola casa in cui si ambienta la discussione e la striminzita vicenda. Sembra che Frankie e Leslie abbiano guardato a qualche esperimento pre-underground di inizio anni '60 e abbiano scelto come soggetto, al posto di drogati rincitrulliti, uomini di grande cultura moderna ma assai vitali e curiosi, intrigati (probabilmente ironicamente) dai misteri della religione ma rassegnati ad un'esistenza sempre uguale (a cui si rimedia con delle birre) in cui non si sa più cosa sia santo ("Holy, holy, what's holy?") e in cui non si spera più in niente perché forse '"siamo già in Paradiso senza saperlo" ed è una vera delusione'. Alcuni personaggi, parlando per libere associazioni, "giocano con le parole", e lo stesso Kerouac sembra compiacersi delle parole con cui giocano: da narratore, si pone dentro e fuori la storia, narrando l'oggettiva sequela di affermazioni ma inevitabilmente colto nella natura grottesca dei dialoghi. Alla fine la moglie del personaggio chiamato Milo, che è il proprietario dell'appartamento, inadatta a comprendere davvero le conclusioni sociologiche/antropologiche a cui si è giunti (o forse no) in quell'improvvisato salotto intellettuale scoppia a piangere, come probabilmente avrà fatto già tante volte. E nell'inutilità delle azioni e delle parole che si ripetono (le parole che finiscono in -logia, "scarafaggio", "santo", come anche si ripete sempre fino allo sfinimento e al fastidio l'icona della bandiera americana), il marito le lancia una piccola morale: "Io so i veri motivi per cui si deve piangere", lanciando un calcio ad una sedia che non smette più di traballare.
Era un periodo intellettualmente fecondo, quello della Beat Generation, ma dal punto di vista esistenziale qualcosa si è rotto, è evidente, e di speranza dentro le persone ne era rimasta ben poca. 
Forse tutto questo sarebbe però stato più adatto ad una poesia piuttosto che ad un film, puramente illustrativo, perché mai Frank e Leslie giocano con le immagini come i loro poeti giocano con le parole. Alcuni virtuosismi sono semplicemente procurati dal montaggio, ma poco rimane di davvero memorabile, e il film rischia di disperdersi nelle opere semplicemente interessanti, raffiguranti epoche disperse e fin troppo imperniate al loro tempo.

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