Regia di Lars Klevberg vedi scheda film
La saga di Chucky, inaugurata dallo sceneggiatore Don Mancini nel 1988 ed (in teoria) ancora in corso sempre per mano di quest’ultimo (passato direttamente alla regia dal quinto film), è tra le più celebri ed amate tra i fan dell’horror, ed a ragione. Dietro ad ogni capitolo – dal più al meno riuscito - c’è un’idea diversa e quasi sempre brillante, con la costante di un protagonista (doppiato nella versione originale dal grande Brad Dourif) dal carisma irresistibile: sboccato, politicamente scorretto e dall’aspetto via via sempre più Heavy Metal.
Chucky è entrato nel cuore degli appassionati del genere, che hanno deciso di stare al gioco quando dall’horror più classico si è deciso di virare verso la commedia nera con lo spassoso La sposa di Chucky, che aveva fatto trovare alla saga il suo equilibrio ideale: ironia caustica ed omicidi creativi e ben congegnati. Il figlio di Chucky, esordio registico stilisticamente un po’ incerto di Mancini, aveva comunque delle trovate notevoli e tentava anche un discorso meta abbastanza simpatico.
La maledizione ed Il culto di Chucky - due prove decisamente più mature - recuperavano invece le atmosfere più cupe dei primi due capitoli, facendo sfoggio di grande inventiva e, benché destinati sfortunatamente al solo mercato home video, non sfigurando affatto davanti all’horror da sala medio (anzi).
Una saga a cui si vuol bene, insomma, scritta da un tizio che ha dedicato un’intera carriera alla sua creatura e che ha quindi ragionevolmente deciso di prendere le distanze da questo reboot, che esiste solo grazie ad un cavillo legale: il franchise principale va avanti sotto il marchio della Universal dal secondo capitolo, ma i diritti del primo sono in mano alla MGM, che ha deciso dopo anni di tentare un riavvio.
In partenza, quindi, questo film non aveva nessuna ragione per non apparirci come l’ennesimo pallido remake senz’anima e senza idee, ma soprattutto senza attrattiva. E non aveva nessuna ragione per non esserlo: meno impegno per tutti, soldi sicuri lo stesso. E invece è successo che lo sceneggiatore incaricato di scriverlo abbia deciso di farlo con sagacia, ed il risultato è un film che ha nel suo essere radicalmente diverso dagli originali il suo punto di forza maggiore.
Chucky non è più un bambolotto posseduto dallo spirito di uno sboccato serial killer, ma uno smart-bambolotto dal sapore blackmirroriano, la cui intelligenza artificiale va in tilt poiché manomessa da un operaio vendicativo durante la stremante produzione in serie in una fabbrica in Vietnam.
E qui lo sceneggiatore Tyler Burton Smith si prende già un grosso rischio: rinunciare alla personalità caustica ed “umana” che ha reso così iconico il personaggio negli anni. Quasi come fosse una reazione fisiologica, il film trova comunque il modo di fare ironia, immergendo i protagonisti umani in situazioni folli e sopra le righe, con gag geniali e spiazzanti, ed un cast perfettamente all’altezza.
Come ciliegina sulla torta abbiamo poi degli omicidi davvero truculenti e creativi, fattore sorprendente visto il target di riferimento (i millennials ipersensibili americani).
Coraggiosamente sopra le righe e scorretto, La bambola assassina fa dunque ben sperare per il futuro dell’horror mainstream, divenuto negli anni sempre più pavido e schiavo di formule blande, inoffensive e poco stimolanti (per intenderci: The Conjuring ed emuli).
Quanto a Don Mancini, non credo che abbia visto il film e non credo ne abbia intenzione, ma se mai gli venisse voglia di farlo sono sicuro che zitto zitto se lo gusterebbe senza troppe riserve, e capendo da solo che non c’è nemmeno bisogno di paragonare il suo simpatico bambolotto a questo: non c’è competizione, il vero Chucky è ancora Charles Lee Ray, lo strangolatore del lago. Questo, che decide di fare del male solo per via di un difetto di fabbricazione, è la versione tecnologica ottusa che meritano i nostri tempi.
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