Regia di Zhang Yimou vedi scheda film
Anche la terra ha le sue onde e si chiamano dune. E anche il tempo ha i suoi granelli di sabbia e si chiamano secondi. E il deserto diventa questo luogo metafisico di passaggio, che si attraversa, come la vita, dove nulla è destinato a durare e deve continuare a mutare. Uno spazio indistinto, anonimo, che unisce aree di una mappa imprecisata, che dovrebbe essere la Cina in un periodo in cui Mao era ancora vivo e la sua rivoluzione culturale in atto.
Il cinema come propaganda e educazione ma anche come reale forma di intrattenimento popolare, il film appartiene alla gente, alle masse, per esso è creato e adesso è rivolto. E questa appartenenza è rappresentata dalla sala cinematografica di un piccolo paese dove un proiezionista si ritrova a fare i conti con una bobina ingarbugliata e sporca, da ripulire, stendere, asciugare, riavvolgere. Da trattare con cura. Come qualcosa di prezioso.
E le vicende parallele di un evaso e di una bambina, che si contengono e vengono uniti da un pezzo di pellicola che passa fra le loro mani, due esseri partecipi della stessa solitudine, sporchi, in balia di una miseria che li avvolge e li spinge ad andare avanti. Per incontrarsi. E conoscersi.
C’è qualcosa di programmatico e artificiale nella poesia visiva di Zhang Yimou, qualcosa che si vorrebbe toccare senza riuscirci. Forse il cuore dello spettatore.
Una messinscena che alterna quadri corali e proletari a figure singole, a volte solitarie fra le dune, altre in movimento, per i vicoli del paese e le strade polverose. E una pellicola tagliata, proiettata in un loop artigianale, un solo fotogramma come un ricordo smarrito, un solo secondo da rivedere in silenzio e poi neanche più quello, perché ogni cosa svanisce nell’attimo stesso in cui l’abbiamo guardata. E infine amata.
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