Regia di Kwok Cheung Tsang vedi scheda film
“O fai il bullo o sei bullizzato”
“E allora tu cosa sei?”
Teppista anticonformista incontra studentessa modello. Il cliché? Parrebbe dietro l’angolo. Il risultato? È invece sorprendente. Mai melenso, mai semplicistico, mai retorico (salvo nel finale).
Pur per suggerimenti e per fuggevoli illuminazioni, riesce a render conto in modo acuto e brillante di una realtà complessa e sfaccettata, dove alle pressioni scolastiche si uniscono e fondono quelle socioculturali; all’incitamento alla competitività sfrenata fa riscontro una situazione sociale, familiare e scolastica intransigente ed esigente, incapace comunque di celare a lungo i propri fattori di fragilità intrinseca, i quali finiscono inevitabilmente per produrre esclusione, violenza, intolleranza.
Tesissimo e memorabile, il film carpisce e costringe; costringe a vedere e indagare, non ignorare, una realtà al dunque spietata, oppressiva e all’apparenza senza vie di scampo, nella quale sin dalla prima giovinezza ci si trova irrimediabilmente inquadrati in un sistema rigido e implacabile, gerarchizzati ed “educati”, alla totale abnegazione, alla completa dedizione, alla sostanziale fatalistica accettazione; costretti a dare sempre il massimo e a non fermarsi e soprattutto fallire mai, neppure una singola volta, perché un solo errore, il non brillare ad un unico, imprescindibile, immancabile, test espone al rischio di rovinarsi l’intera esistenza.
Non c’è spazio per la compassione, non c’è spazio per le distrazioni.
La pressione quasi inconcepibile cui da sempre sono sottoposti gli studenti asiatici ha del parossistico (sin dalle sue manifestazioni più superficiali ed esteriori: vedi i cartelloni “edificanti” rosso fiammante [uno degli slogan è emblematico: “Il duro lavoro seminato ieri è l’abbondante raccolto di oggi”], il tabellone elettronico sempre lì, immarcescibile, a ricordare i giorni mancanti all’esame, le continue e insistenti prediche dei professori, l’inno “del buon cittadino” [“giuro di non deludere i miei genitori e di non deludere i miei insegnanti…”] e via discorrendo).
In confronto, il sistema nostrano pare un agnellino, docile e comprensivo (vedasi per credere anche l’ottimo coreano Pluto [2012]).
Ma, come si diceva, il quadro più ampio non si può dire dia altresì molto adito a particolari ottimismi. In grandi megalopoli sovrappopolate e decadenti, “abitate” da grandi casermoni residenziali e affollatissimi quartieri uno a ridosso dell’altro, uno sopra l’altro, costellati da viuzze strette e buie, alienanti e opprimenti, si muovono personaggi ambigui e tormentati, violenti o sottomessi, timidi o estroversi, crudeli o atterriti, ma in linea di massima soli e disperati. E’ in generale abolita ogni forma d’empatia e pietà.
Il “paesaggio” può venir di tanto in tanto rischiarato da brevi barlumi d’umanità inattesi, ma il quadro per l’appunto rimane fosco e asfissiante. La polizia è al meno peggio inutile, la giustizia non esiste e la vendetta naturalmente non porta a nulla, mentre la competitività ad ogni costo induce a non curarsi troppo degli altri.
Esiste via d’uscita? Forse, ma certo non per tutti. Chi rimane indietro viene abbandonato. E chi chiede disperatamente aiuto in ogni modo ignorato, anche dai suoi stessi compagni. Un fenomeno come quello del bullismo, in questo contesto d’assenza di strutture d’appoggio, di reti di protezione, rimane impunito.
Suggerendo e non spiattellando a bella posta, oltre a comporre un’opera più adulta e convincente della media di quella “per ragazzi”, Better Days sembra essere riuscito a sfuggire alle maglie della censura.
Diciamocelo subito: il finale (ovvero, l’ultima decina di minuti) sa di posticcio, non v’è dubbio, ma non riesce più di tanto ad intaccare tutto il buon lavoro fatto in precedenza che, per quel che è lecito pensare, dà l’idea d’esser passato indenne per il travagliato processo. In quanto, critico senza mezzi termini e spesso impietoso senza compiacimenti, dipinge un affresco affatto consolatorio e rassicurante, con buona pace della sezione propaganda (alla quale certo dobbiamo non solo la conclusiva “pedagogica equa distribuzione delle colpe e delle pene”, come ben si conviene, ma anche le didascalie finali).
Il film sicuramente non dice nulla di nuovo, ma lo dice benissimo, grazie alla regia attenta e partecipata (come risulta evidente sin dalla scena iniziale al campus, con tanto di inserti di messaggistica che non fanno altro che aumentare la tensione sino a livelli insostenibili [oltre a dirci qualcosa sul mondo di oggi…]; o nei numerosi piani ravvicinati e primi piani che “costringono e ingabbiano” i personaggi, come nella scena dell’assalto), alla fotografia plumbea e ai bravissimi attori (una menzione speciale alla protagonista, Zhou, va da sé, ma anche il “boybandaro” Jackson Yee non se la cava affatto male: i due dimostrano anzi una “chimica” invidiabile).
Insomma, un grande film, questo Better Days. Realistico, commovente e capace di far riflettere. E speriamo infine vengano quei “giorni migliori”.
Adattato da un romanzo online “young adult”, accusato di aver plagiato un’opera dello scrittore giapponese Keigo Higashino, Better Days, dopo esser stato ritirato dal Festival di Berlino (al pari di One Second, di Zhang Yimou, “per problemi tecnici”), è stato infine distribuito e si è guadagnato un grandissimo successo di pubblico (ha incassato oltre 80 milioni di dollari solo nel primo fine settimana), spia questa, difficile non vederlo, di quanto gli argomenti al centro della vicenda siano molto sentiti.
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