Regia di Dan Reed vedi scheda film
documentario
/do·cu·men·tà·rio/
aggettivo e sostantivo maschile
1 - aggettivo Capace di fornire dati e notizie, più che di convincere sul piano logico o estetico.
2 - sostantivo maschile Film a corto o a medio metraggio, di carattere divulgativo, didattico o informativo, che, evitando ricostruzioni fittizie, si propone di dare una rappresentazione più vicina possibile alla realtà del fatto narrato.
E’ giusto partire dalla corretta definizione di documentario, per analizzare l’ultimo lavoro di Dan Reed. Incentrato principalmente sull’infanzia, e solo in parte sulla vita tutta, del coreografo Wade Robson e dell’attore James Safechuck, entrambi accusatori di Michael Jackson che, stando alle loro testimonianze, avrebbe abusato sessualmente di loro. Parto dalla suddetta definizione per dire innanzitutto che risulta erroneo definire questo “film” un documentario visto che, non solo non fornisce dati e/o notizie ma nemmeno evita ricostruzioni fittizie in quanto tutto ciò che i testimoni raccontano, altro non è che un resoconto fine a se stesso che non consente a chi guarda di capire, in nessun modo, se ciò che viene narrato sia poi così diverso da ciò che appare, in quanto non vengono messe al vaglio prove o dimostrazioni di veridicità.
Appurato ciò ci limiteremo ad analizzare solo quello che l’occhio guarda, prescindendo da ciò che la mente non potrebbe elaborare, per mancanza di elementi validi.
Il film di Reed si imposta fin da subito sul canone della fantasia. Lo capiamo dalla nenia musicale che accompagna le lunghe inquadrature dall’alto e dal titolo che sembra rievocare non solo il famoso ranch del cantante ma anche il film di Marc Forster con Kate Winslet e Johnny Depp. Altro elemento che esalta l’inventiva, è il modo in cui si decide che “il fatto” venga raccontato. L’utilizzo dell’introduzione dei sogni di questi uomini che erano bambini, il loro idilliaco rapporto con amorevoli famiglie, e il disastro a cui vanno incontro dopo la nascita della loro amicizia con Jackson, altro non sembra se non una fiaba dei fratelli Grimm.
Eccessivo nel perbenismo che cavalca e nei tempi che allunga a dismisura, la durata di quattro ore è davvero esagerata se consideriamo che l’ultima ora e mezza è incentrata sulla depressione di Robson, il film annoia lo spettatore già dopo le prime due ore, che sarebbero comunque bastate a riportare il resoconto dei due accusanti; spesso si ripetono le stesse frasi, si ribadiscono gli stessi concetti, come un vortice di notizie che sembrano voler essere inculcate piuttosto che confessate. Laddove in certi casi la sintesi sarebbe potuta diventare l’alleato non solo di chi guarda, ma soprattutto di chi racconta, affnchè non si perda in giri di parole, finisce invece per essere un rimpianto forse per entrambe le parti.
In sostanza, nulla di nuovo all’orizzonte: nessuna nuova accusa, che possa essere quantomeno definita tale, per il defunto Michael Jackson e ancora pochi e rari registi degni di saper dirigere un documentario come si deve.
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