Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
L’età d’oro del cinema pornografico americano, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, raccontata attraverso le vicende del regista Jack Horner e della sua famiglia allargata di attori e maestranze: sesso (ovviamente), cocaina e legami parentali surrogati, talvolta vagamente incestuosi. Il miglior film mai realizzato da Paul Thomas Anderson, non ancora assillato dall’idea di voler fare l’Altman a tutti i costi (come in Magnolia) e prima di perdersi nella narcisistica maniera di sé stesso. Un cast eccezionale, con un perfetto equilibrio fra i singoli ruoli e Burt Reynolds che orchestra l’insieme: personaggi teneri, patetici, sbruffoncelli, frustrati, interiormente innocenti e con un’inconfessata nostalgia di normalità. Mentre si passa dalla pellicola alle videocassette e sulle pareti compaiono le foto di Reagan, un mondo intero frana e ognuno incontra la propria personale sconfitta in un’implacabile serie di montaggi alternati: rassegnarsi a dirigere prodotti dozzinali rinunciando ai sogni d’arte, fare il marchettaro di strada, perdere definitivamente la custodia del proprio bambino, vedersi rifiutare un prestito in banca, suicidarsi dopo aver ucciso la moglie ninfomane (interpretata dalla vera attrice hard Nina Hartley), rimpiangere di non aver conseguito un titolo di studio, essere condannato a una lunga pena detentiva. Poi, dopo che nel sottofinale introdotto dalla sorniona didascalia “Long way down (one last thing)” sembra di aver toccato il fondo, si può provare a ricostruire sulle macerie: come accade nella vita reale.
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