Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
C’è un’altra Hollywood, come dice il sottotitolo italiano, che in quanto a star system non ha nulla da invidiare a quella originale. Si dirà che il mondo del porno non merita il medesimo trattamento delle produzioni normali, ma penso sinceramente che la produzione pornografica abbia incrementato il PIL degli Stati Uniti. Con sprezzo del pericolo, il temerario e razionale Paul Thomas Anderson racconta un sottobosco allucinato di produttori idealisti ed attori ambiziosi, caleidoscopio di dipendenze (sesso, droga, soldi) e di esperienze disparate, romanzo corale su un momento irripetibile (che risente ancora della contestazione e dello spirito della seconda metà degli anni sessanta e vive appieno la libertà totalizzante dei settanta) in cui il cinema commerciale riuscì a non morire anche grazie alla diffusione dell’hard (genere, tra l’altro, qui narrato con una naturalezza encomiabile che dimentica cosa voglia dire la parola ‘puritanesimo’ ma non mette da parte una certa dose di rispettoso pudore).
Con più di un occhio al cinema di San Robert Altman ed un altro alle tendenze tarantiniane contemporanee, Anderson mette in scena una storia ricca e densa in cui si incontrano tutti i topoi del romanzo di formazione e dell’affresco analitico-sociale, finto reportage dal montaggio frenetico e lunatico, e riesce a creare un altro capitolo della storia della decomposizione del mito americano. Lungo due ore e mezza emergono tanti personaggi, legati dal buon Mark Wahlberg (il cui fasullo pene dalle dimensioni abnormi, del quale si parla per tutto il film e si vede solo alla fine, è entrato nella mitologia): non si può tacere sulle caratterizzazioni del disperato William H. Macy e dell’ancora giovane Phillip Seymour Hoffamn, ma soprattutto su quelle, mastodontiche, di Burt Reynolds e Julianne Moore.
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