Regia di Steven Soderbergh vedi scheda film
Ogni volta che vedo un film targato Netflix ho la stessa sensazione: che si tratti di un'opera fatta al risparmio. E quasi sempre è così, anche quando i lungometraggi del colosso americano transitano per la sala, come nel caso di Panama Papers, 27esimo film del prolificissimo Steven Soderbegh, ex autore di belle speranze piegato ai capricci del suo ego ipertrofico e da tempo ridotto alla maniera di sé stesso (pensate agli inguardabili Out of sight, Intrigo a Berlino, La truffa dei Logan ma anche al doppio biopic su Che Guevara). Opera che racconta da un'angolatura tutta particolare (una richiesta di risarcimento che scoperchia il vaso di Pandora della finanza allegra) la crisi scoppiata nel 2008, che affonda le sue radici su titoli con lo stesso valore della carta straccia, subprime e compagnia cantando. Il film raccoglie una serie di situazioni parossistiche tutte legate dallo stesso filo narrativo, con una specie di coro greco dei dioscuri Oldman e Banderas che raccontano con la massima disinvoltura i loro raggiri. Cinema sghembo girato in grande libertà stilistica, che tuttavia richiama obbligatoriamente alla mente film ben più riusciti sullo stesso tema: La grande scommessa, Margin Call e La frode, per limitarci ai più recenti.
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