Regia di Nat Faxon, Jim Rash vedi scheda film
Appena sposti un piede al di fuori dell’allineamento generale, vieni – ad andare bene - immediatamente osservato con sospetto. Addirittura, in alcune circostanze ti ritrovi affibbiate spiacevoli etichette, a essere visto come una pecora nera, un impostore che non merita di usufruire di attenuanti, al punto da venire cestinato senza ricorrere ad approfondite analisi.
Succede a Downhill, un oggetto filmico che, per derivazione e metrica, risulta facile da sbertucciare ma non per questo sprovvisto di elementi e implicazioni fortemente caratterizzanti.
In cerca di rilassatezza dopo un lutto, Pete (Will Ferrell) e Billie (Julia Louis-Dreyfus), due coniugi americani, trascorrono una vacanza sulle Alpi austriache insieme ai loro due figli.
Tutto procede tranquillamente fino a quando una valanga programmata li colpisce e Pete, pensando solo alla propria incolumità, scappa a gambe levate. Quantunque tutto si risolva senza nessun danno fisico, questa reazione istintiva spinge Billie a provare un inedito disagio nei confronti del marito.
I successivi comportamenti poco ortodossi di Pete, non faranno altro che peggiorare la situazione.
Rivisitando Forza maggiore di Ruben Östlund, Downhill compie una scelta coraggiosa, per taluni semplicemente oltraggiosa. Infatti, dal dramma rigoroso e punitivo dell’originale, transita sui binari della commedia, sfruttando le doti intimistiche dei registi Nat Faxon e Jim Rash (C’era una volta un’estate), i tempi sofisticati di Julia Louis-Dreyfus (Veep – Vicepresidente incompetente) e, prima di ogni altra cosa, l’umorismo debordante di Will Ferrell (Anchorman 2 – Fotti la notizia, Zoolander).
Così, partendo dal medesimo evento scatenante, varia la formula che prevede una famiglia felice finire in mille pezzi, adattandosi al modello sociale americano, a un vuoto pneumatico che tende a nascondere egoismi, ipocrisie e maleducazione, con la crisi del maschio padrone di casa destinata a emergere in tutta la sua drammatica virulenza dinanzi alla prima inattesa difficoltà.
D’altro canto, se la forma è piana, per non dire pigra, questa rappresentazione si può ugualmente definire efficace in virtù del suo protagonista. Di fatto, Downhill consegna le chiavi di casa a Will Ferrell, un perfetto Homer Simpson in carne e ossa per come incoscientemente ne combina una più di Bertoldo, straniante se si pensa al film originale, assolutamente pertinente nel suo essere inopportuno (un marchio di fabbrica della casa), vigliacco e concentrato su se stesso.
In pratica, Downhill cammina sulle uova, non sparge grandi acuti e rimane una pellicola discutibile ma, contestualmente, esperisce un preoccupante snapshot sociale, abbracciando l’inconsistenza umana, esistente anche all’interno di quei rapporti ritenuti saldissimi. Tra le promesse di sempre e istinti reconditi, con situazioni confezionate svogliatamente e personaggi di contorno – lo sciatore italiano latin lover interpretato da Giulio Berruti e una signora impudente raffigurata da Miranda Otto – macchiettistici e vagamente informi, ma anche un protagonista maschile che alza l’asticella della provocazione e una controparte femminile – Julia Louis-Dreyfus - che regge il gioco con una pervicace nonchalance.
Sfidante.
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