Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Da una triste vicenda purtroppo realmente accaduta in passato (e quante di analoghe!), senza per questo – suppongo – avere la presunzione della verità storica di un documentario, prende origine il film in oggetto, che a mio parere è da molti sottovalutato o misconosciuto. L'impressione è che l'efferata crudeltà di certe disumane situazioni sia stata un poco edulcorata, ma un simile espediente narrativo non riesce comunque a sminuire la forza morale dell'importante messaggio di fondo.
L'incedere è tanto incessante quanto prolisso, non necessariamente nel senso spregiativo del termine. Perché il ritmo sarà anche blando, però la tensione costante e l'alta densità (e intensità) dei contenuti hanno discreto successo nell'alimentare e conservare acceso il fuoco dell'interesse. Il cuore pulsante è sostanzialmente dialogico, l'essenza è la parola. E ove essa viene a mancare, ecco subentrare l'immediatezza di un'immagine, di un gesto, di un simbolo.
Il cast chiama in causa un paio di rivelazioni e un numero di altisonanti celebrità. La prima sorpresa è Djimon Hounsou (Sengbe Pieh / Joseph Cinqué), che manifesta un carisma da protagonista in virtù dell'ardore profuso e dell'efficacia dei suoi sguardi. La seconda è un inedito e bizzarro Matthew McConaughey (Roger Sherman Baldwin), che per una volta smette i panni del bello di turno e convince appieno in un ruolo più professionale. Inoltre, anche se secondario, si nota già la competenza di Chiwetel Ejiofor (James Covey). Mantengono le promesse di un supporto degno del loro nome e comprovato talento i navigati Anthony Hopkins (John Quincy Adams), Morgan Freeman (Theodore Joadson) e Pete Postlethwaite (William S. Holabird), mentre a Stellan Skarsgard (Lewis Tappan) e a una giovane Anna Paquin (Regina Isabella II) non è chiesto granché e restano più in disparte.
Nonostante la pesantezza del soggetto e la durata superiore alla media, mi sono sentito coinvolto e partecipe, senza mai cadere nella noia o nel torpore onirico. Ho apprezzato la costruzione dell'intreccio, gli spunti per la riflessione, gli sviluppi delle vicende e dei personaggi. Soffermandosi e focalizzando l'attenzione su pochi, consente di affezionarsi a loro e favorisce l'immedesimazione. La scelta di lasciare le parole in lingua mende, con la relativa traduzione nei sottotitoli, conferisce poi quel tocco speciale di ulteriore realismo che non guasta affatto.
Inappuntabile dal punto di vista tecnico. La suggestione della fotografia, l'ottima fattura di trucco, parrucco e costumi (di fondamentale importanza in un film del genere), la considerevole colonna sonora del sempreverde John Williams sono soltanto alcuni degli ultimi pregi che non posso evitare di citare e che rendono Amistad il piccolo-grande prezioso gioiello che è. Da riscoprire.
Nell'estate del 1839, in una notte di tempesta nel mare a largo di Cuba, 53 schiavi africani imbarcati sulla nave spagnola "Amistad" riescono a liberarsi e, guidati da Cinqué, assumono il comando. Non essendo tuttavia esperti navigatori, dopo due mesi vengono catturati da una nave americana, incarcerati e processati per l'assassinio dell'equipaggio. Gli abolizionisti Theodore Joadson e Lewis Tappan affidano la difesa al giovane avvocato Roger Baldwin. A poco a poco il caso, nel quale entra in gioco il problema della schiavitù, diventa il simbolo della divisione della Nazione.
Garante di una qualità assai superiore alla media, anche quando non è eccelso, John Williams mantiene vivo il sodalizio col regista e gli orchestra pure stavolta un accompagnamento musicale degno di nota.
Per me è approvato in toto.
Da abile e sopraffino narratore quale è, confeziona con maestria un contenuto impegnato e non facile.
Un distinto ruolo di supporto è il suo Theodore Joadson.
Assorto e calato alla perfezione nei panni di Sengbe Pieh / Joseph Cinqué.
Il suo classico magnetismo colpisce in John Quincy Adams.
Meglio del suo solito, almeno all'epoca, interpreta Roger Sherman Baldwin.
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