Regia di David Fincher vedi scheda film
Il film più incompreso di Fincher. Forse anche uno dei suoi più geniali e affascinanti con un grande Douglas, uno Sean Penn inquietante e la solita magnifica, sexy Deborah Kara Unger. La donna androgina e dai tratti del viso leggermente mascolini più sensuali forse della storia del Cinema. Appena la vedo, rischio di impazzire come Van Orton.
Ebbene, oggi recensiamo il film forse più contestato, incompreso, altamente snobbato dall’intellighenzia critica ai tempi della sua uscita, ovvero The Game - Nessuna regola di David Fincher.
Ça va sans dire, uno dei nostri registi contemporanei preferiti in assoluto. Uno di quei cineasti personalissimi, rari al giorno d’oggi ove impera l’omologazione perfino d’ogni poetica, non soltanto cinematografica.
Fincher, un regista tornato alla ribalta, quest’anno, col meraviglioso Mank già in odore di numerosissime nomination ai prossimi Oscar.
Ecco, come dicevamo, The Game - Nessuna regola fu piuttosto disdegnato nel ‘97, anno in cui uscì, attirandosi infatti addosso le ire dei critici più superficiali e malevoli, precocemente sentenziosi negativamente, i quali lo reputarono, in maniera del tutto erronea e sbrigativa, semplicemente un divertissement tirato per lunghe, scollato e ricolmo d’incongruenze, d’illogici e imbarazzanti, eccessivi colpi di scena. Insomma, una stravaganza ludica cinematograficamente inconsistente, paragonabile a un videogame senz’anima.
Sceneggiato dall’inseparabile duo formato da John Brancato e Michael Ferris, finanziato in parte da Jonathan Mostow in veste di produttore esecutivo, The Game - Nessuna regola dura centoventinove minuti. Una durata notevole per un thriller al cardiopalma e adrenalinico che, dopo un mellifluo, quasi soporifero suo torbido incipit da angusto e tetro kammerspiel, divampa, sempre più carburando narrativamente di diegetica meticolosamente sottile, in una sorta di action movie rocambolesco e funambolico, filmato egregiamente e fotografato splendidamente da Harris Savides, cinematographer quasi sempre immancabile di molte pellicole di Gus Van Sant (Elephant) habitué, potremmo dire, delle sue ricreate, atmosferiche suggestioni visive ammantate di liquida impalpabilità mortifera.
Sì, il suo modo di fotografare è secco, limpido, profondamente evocante sensazioni inquietanti, la sua è una fotografia nitidissima, cioè assai pulita, capace però al contempo di trasmettere emozioni paurosamente graffianti, allineate al clima soventemente funereo e plumbeo che si respira dai film per cui s’è prodigato come certosino e attentissimo maestro delle luci più immortalanti storie perversamente “sporche” e intricate, storie potenti dalle vicende perlopiù contorte, enigmatiche, forse persino irrisolte... come in tal caso.
Trama:
per il suo 48° compleanno, il ricchissimo nababbo miliardario e consulente finanziario Nicholas Van Orton (un Michael Douglas in gran spolvero), ossessionato dalla morte tragica di suo padre, avvenuta per suicidio, riceve da suo fratello Conrad (Sean Penn), scapestrato, ragazzo disturbato o semplicemente dalla sua famiglia rinnegato e dal suo stesso fratello snobbato, un particolarissimo regalo, cioè la tessera d’iscrizione a un esclusivo, costosissimo club che, in seguito a una specie di test attitudinale atto a profilare il prescelto, sottoscritto giocatore che ha accettato la sfida di esser immerso in un’avventura che possa scuoterlo dal grigiore e dal ripetitivo torpore d’una vita monotona, organizzerà per lui qualcosa che potrebbe sconvolgergli il concetto stesso d’esistenza, catapultandolo in ignote situazioni surreali al limite del pericolo più vitalmente stimolante e irresistibilmente morboso.
Al che, Van Orton, spaesato e spiazzato da eventi imprevisti, strabilianti e al contempo scioccanti che lo trascineranno, via via, sempre più in una sorta di orchestratagli realtà grottesca e inimmaginabile, pianificatagli ad hoc, prima trascorrerà una notte à la Fuori Orario di Scorsese con l’avvenente Christine (Deborah Kara Unger, la splendida Alex Johnson / Sarah di Highlander 3 e l’indimenticabile Catherine Ballard di Crash), barcamenandosi goffamente per la sua sopravvivenza, quindi scivolerà crescentemente in uno stupefacente e terribile, probabilmente illuminante incubo a occhi aperti.
Apparentemente incoerente nel suo intreccio ingarbugliato e nelle sue innumerevoli scene a prima vista paradossali, The Game forse non va preso affatto seriamente, in quanto rispecchia soltanto fedelmente l’etimologia del suo stesso titolo. È infatti sol un gioco, un intrattenimento immaginifico, concepito dettagliatamente da Fincher a scopo puramente ricreativo. Allo stesso tempo però, malgrado il suo impianto all’apparenza insostenibile, logicamente e filmicamente, è un film enormemente stratificato e metaforico, ovvero interpretabile secondo molteplici chiavi e logiche interpretative.
Rivelandosi, a ogni visione, sempre più affascinante e seducentemente ipnotico.
San Francisco, inoltre, sottolineiamolo ancora, poche volte è stata fotografata in modo così lividamente, magneticamente avvolgente.
Musiche del cronenberghiano Howard Shore.
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