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Regia di Cristina Comencini vedi scheda film

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La recensione su Tornare

di mck
6 stelle

Volver... (è un altro film).

 

 

Stavo per scrivere “Col cinema di Cristina Comencini ho perso i contatti da quasi un decennio (erano i tempi di “Quando la Notte”, a cui ho assistito per via della coppia d’attori principali, quand’ormai già “Bianco e Nero” aveva fatto naufragare ogni possibile conciliazione con la produzione dell’autrice, e premesso che “la Fine è Nota”, “Matrimoni”, “Liberate i Pesci” e “la Bestia nel Cuore” son le sue opere migliori, da 6 pieno o quasi)…”, ma poi mi sono ricordato di aver incrociato - e di recente! - il suo lavoro di finzione antecedente a questo (in mezzo ci sta il documentario “Sex Story”), vale a dire “Qualcosa di Nuovo” (titolo a sé antitetico): e questo può spiegare molte cose di me (e chi se ne), ma forse anche del cinema di Cristina Comencini

 


E la belluricamente fondamentale citazione in esergo tratta da Carlo Rovelli (“Sette Brevi Lezioni di Fisica”, “l’Ordine del Tempo”, “HelgoLand”) cade all’uopo, in correlazione/entanglement col film, certo, ma rimanendo anche imprigionata e confinata in una bolla a sé stante.

 


Tutto sommato spiace non riuscire a dargli la sufficienza piena, ma solo quasi raggiunta, perché ci sono un paio di validi elementi tecnico-artistici...

 


[la fotografia di Daria D’Antonio - tra gli altri: “Padroni di Casa”, “N-Capace”, “la Pelle dell’Orso”, “Ricordi?”, “il Miracolo” - che sul finale, dopo un inizio a cielo coperto, sa catturare il sole di quel mare borghese che, lui sì, bagna Napoli (Posillipo), e le musiche - jazz e world - molto belle degli ottimi Gabriele Coen (KlezRoym) e Marco Rivera (Agricantus), già collaboratori fra loro in ambito discografico (“Ho Visto Nina Volare”, un progetto in omaggio a Faber) e teatrale oltre che, e non solo, cinematografico (“Notturno Bus” di Davide Marengo), più Colin Stetson, i Beach Boys e il sirtaki di Theodorakis]

 


...e un altro paio di belle scelte cinematografiche...

 


[una stilistico-narrativa (non certo originale, ma ben sviluppata), ovvero il sovrapporsi dialogante delle varie linee temporali (oltre al già citato “la Finestra di Fronte”, tra analessi/prolessi semplici, diegetiche al flusso del racconto interno, con flashback/flashforward che vengono inseriti dall’autore/narratore esterno onnisciente/ignorante rimanendo fra loro compartimentate, si può citare, pescando dalla filmografia italo-mainstream recente, il “Viaggio Segreto” di Roberto Andò del 2006), qui declinato e sviluppato ad un grado di complessità superiore, extra-diegetico rispetto al naturale scorrere degli eventi (si pensi, in parte, alla “Napoli Velata” di Ferzan Ozpetek, sempre con Giovanna Mezzogiorno, o addirittura al magnifico "I May Destroy You" di Michaela Coel), con i diversi abitanti - referenti alla protagonista - dei piani spazio-temporali (montaggio del veterano - ed ozpetekiano - Patrizio Marone) che, sovrapponendosi alle differenti personalità, dialogano e interagiscono fisicamente fra loro, incarnandosi in un altroquando che vive sul questodove, lo spazio...

 

 

...della casa avita, intervenendo apparentemente/falsificantemente in maniera diretta (in realtà è un trucco, un inganno, un espediente, un sotterfugio, una metafora, un dispositivo) sull’intrecciarsi degli avatar, delle versioni di sé, e l’altra attoriale, con la bella scelta della giovane Beatrice Grannò, reincontrata nel recente “gli Indifferenti”, e una menzione pure per Astrid Meloni, Barbara Ronchi e la piccola Clelia Rossi Marcelli]

 


...che valgono l’audiovisione.



Ma la questione è che, giustappunto per quanto riguarda l’appena citato comparto attoriale, il film cade proprio sulla recitazione degli altri interpreti: dai due protagonisti [oltre che per i dialoghi, già in partenza non propriamente felici, piuttosto che per la sceneggiatura (della regista con Giulia Calenda e Ilaria Macchia), che alla fine il suo lavoro, lineare - con crepe di consecutio logico-sintattiche aprenti voragini nel meccanismo della sospensione dell'incredulità che non s'ingenera, m'a quel punto poco importa - e facilmente assimilabile, lo fa, a parte all’inizio, durante il lungo pedinamento notturno alla discoteca, la cui messa in scena è veramente pesante], Giovanna Mezzogiorno (che sappiamo capace di ben altro, e qui ciò che le si imputa è dovuto in gran parte - azzarderei - ad un uso scellerato del buona la prima, oltre che al solito metodo di direzione degli attori messo in atto dalla regista, vale a dire quasi inesistente) e, in minor parte e con meno colpe, ma solo per la sua natura di deuteragonista/antagonista, Vincenzo Amato (altrove, quando asciugato da Crialese, bravissimo - “Once We Were Strangers”, “Respiro”, “NuovoMondo” -, ma mai più su quei livelli), a Trevor White (fuori parte).

 


Capito poco meno che niente? Bene, perché il film (tanto, da un lato, l'autobiografia, in parte, quanto, dall'altro, le trame temporali che si sovrappongono - ancora: l'entanglement, ovvero le correlazioni, rese qui carnali, fisiche e concrete, nell'universo classico e tangibile, passando da quello quantistico - in un unico spazio/luogo) invece è chiaro, ma il piacere langue, sporcato da questo appena descritto recitare, qui inteso proprio nel senso etimologico del termine: fare l’appello, ri-citare…

 


Però bisogn’aggiungere che, per contro, sempre parlando di Giovanna Mezzogiorno, impressionante - in senso buono e positivo - è l’utilizzo che sa fare del proprio corpo (confrontare anche, a tal proposito, i coevi “Lacci” di Daniele Luchetti e il già citato “gli Indifferenti”, nei quali ricopre un ruolo da co-protagonista secondario), qui profondamente mutato rispetto al suo film precedente, l’altrettanto già citato “Napoli Velata” di due anni prima: più pieno (un fatto), più (non nel senso di "gravidanza", ma di "maternità") materno (una causa-effetto), più bello (un’opinione).

 


Insomma, son sempre gli attori - ancor più di ciò che concerne la storia -, nel bene e nel male, a riportarmi al cinema di Cristina Comencini, non il suo cinema.



* * ¾ - 5.5  

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