Regia di Cristina Comencini vedi scheda film
Comencini non è Nolan, e l'ambizione di poter mescolare diversi piani temporali in un thriller dell'inconscio che si vorrebbe costantemente in bilico tra sogno e percezione del vero naufraga miseramente, perché il registro onirico e il 'realismo quantistico' si confondono disorganicamente.
Novembre 1991. Dopo anni di lontananza, e dopo aver fatto carriera negli Stati Uniti, Alice torna a Napoli e alla villa con affaccio sul mare in cui è cresciuta e nella quale s'è da poco spento il padre malato. Nella casa, ormai disabitata, ad accoglierla è la sorella Virginia, ma chi maggiormente lo ha sollevato dalla solitudine della sua malattia nell'ultimo anno è stato il vicino Mark, che veniva a trovarlo quotidianamente e che parlando con Alice - della quale è coetaneo - le dimostra di conoscerla a fondo nonostante lei di lui non abbia ricordi. Dopo il funerale, Virginia torna alla sua vita di sempre, mentre Alice decide di fermarsi per gestire le visite propedeutiche alla vendita dell'abitazione. Nel corso della sua permanenza, avrà modo di confrontarsi con il proprio passato e di affrontare un evento rimosso che le ha cambiato la vita.
Quando - dopo la prima notte passata nella casa di famiglia vuota - la protagonista si sveglia nel maggio del 1967 con Don't Worry Baby dei Beach Boys alla radio e sé stessa diciottenne che si prepara ad una festa e che le annuncia i propri programmi, e l'unica cosa che riesce a dirle è «Ma i capelli non te li leghi?», appare evidente che - dal punto di vista drammaturgico - nel film ci sia un problema. Già, perché il 'confronto con il proprio passato' cui si accennava poco sopra, è un vero e proprio incontro tête-à-tête di Alice con sé stessa, anzi con ben due sé stesse, dato che a un certo punto ne salta fuori anche la versione bambina, in una sorta di rimpatriata dell'ego che lascia attoniti non per la scelta in sé, ma per la maniera in cui i diversi livelli sono gestiti, o meglio non-gestiti, secondo un'anarchia registica che mescola e sovrappone senza criterio alcuno il presente, il passato e il trapassato generando più volte (complici dialoghi talvolta irritanti) rovinose cadute in un delirio involontariamente comico.
«Non c'è passato, non c'è presente e non c'è futuro: il tempo è solo un modo per misurare il cambiamento»: la presunzione da cui parte Tornare di Cristina Comencini (responsabile anche della sceneggiatura, insieme a Giulia Calenda e Ilaria Macchia) è che farlo precedere da questa citazione del grande fisico Carlo Rovelli possa giustificare qualsiasi forzatura o paradosso. Ma Comencini non è Nolan, e l'ambizione di poter mescolare diversi piani temporali in un thriller dell'inconscio che si vorrebbe costantemente in bilico tra sogno e percezione del vero naufraga miseramente, perché il registro onirico e il 'realismo quantistico' si confondono disorganicamente e senza mai lasciar trasparire il filo rosso di un discorso coerente, laddove il tempo dovrebbe essere esso stesso vivo e cangiante e scorrere all'interno della testa della protagonista, laddove la memoria ne sarebbe una sua lettura e dovrebbe favorire l'interazione tra lei, il suo doppio ed il suo triplo, ma dove l'unica 'costruzione' che riesce, tanto da venir proposta due volte per assicurarsi che tutti l'abbiano compresa, è la banalissima metafora della tripla matrioska con cui il film si apre e si chiude sottolineandone - di fatto - il carattere di operazione goffa e pretenziosa.
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