Regia di Aurelio Grimaldi vedi scheda film
“Era un ragazzo come tanti ma di lui per poco si parlò”
Il 6 gennaio 1980 la città di Palermo si macchia ancora una volta di sangue. Un killer a viso scoperto entra in azione in una delle vie centralissime della città e, davanti agli occhi attoniti della moglie, uccide a sangue freddo Piersanti Mattarella. Non un uomo qualunque ma il Presidente della Regione Siciliana, esponente della Democrazia Cristiana e politico che aveva fatto propri i pensieri di Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira. “Allievo” di Aldo Moro, Mattarella era cresciuto politicamente facendo leva sull’impegno e sulla passione, due caratteristiche che lo avevano reso un uomo granitico e ligio al senso del dovere. Un uomo di ferro, si direbbe oggi, che non è mai sceso a compromessi con quella piovra che da decenni tormenta Palermo, città da sempre avara con i suoi figli migliori.
Alla figura di Piersanti Mattarella, fratello di quel Sergio che una trentacinque anni dopo la sua morte sarebbe divenuto Presidente della Repubblica, il regista siciliano Aurelio Grimaldi dedica Il delitto Mattarella. Lungometraggio di stampo civile, Il delitto Mattarella tenta, nello spazio ridotto di cento minuti, di far capire quale peso abbia avuto Piersanti Mattarella nella politica dell’isola e nella storia d’Italia, sebbene il suo nome sembri essere stato dimenticato sia dai libri sia dai mass media. Uno dei cartelli finali del film ci informa infatti di come nelle dieci più gradi città d’Italia, da Milano a Roma passando per Bologna, non esista una via a lui dedicata, nonostante la toponomastica riservi sorprese con nomi spesso discutibili.
Il racconto di Grimaldi ha il compito delicato di inserire Mattarella nel contesto in cui la matura la sua morte. Il 1978 è l’anno in cui l’Italia è scossa politicamente e civilmente dal rapimento prima e dall’uccisione dopo di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Già il 10 maggio, un giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Moro in via Fani, una telefonata minatoria arriva in casa Mattarella su una linea riservatissima il cui numero era a disposizione di pochissimi eletti. La voce dall’altro capo del telefono non fa molti giri di parole per far capire a Piersanti chi sarebbe stata la prossima vittima eccellente. Lecita parte, dunque, la domanda: chi si cela dietro quella chiamata?
Rispondere non è semplice. La situazione palermitana (ma sarebbe meglio dire siciliana) del periodo non è semplice (basti ricordare che lo stesso giorno del ritrovamento di Moro, viene rinvenuto anche Peppino Impastato, giovane palermitano che aveva osato sfidare a testa alta la mafia). Mattarella era Presidente della Regione Sicilia mentre Palermo era nelle mani del sindaco Salvo Lima, un andreottiano convinto che aveva nella sua giunta Vito Ciancimino nel ruolo di Assessore ai Lavori Pubblici, e la Democrazia Cristiana aveva il suo massimo esponente regionale nel segretario Rosario Nicoletti. Gli anni per intenderci erano quello della speculazione edilizia che, diretta conseguenza del cosiddetto “sacco di Palermo”, permetteva alla mafia di mettere le mani sulle opere pubbliche attraverso dei prestanome. Uno dei casi simbolici viene ricordato da Grimaldi stesso: per il bando destinato alla costruzione di alcune scuole vennero presentati sei differenti progetti da sei finte società, tutte riconducibili tramite sede sociale alla stessa persona: l’imprenditore e mafioso Rosario Spatola, colui che avrebbe anche aiutato Michele Sindona a mettere in scena quel rapimento pirandelliano e, per molti versi, grottesco che il mondo ancora oggi ricorda. A vigilare sui lavori e a verificare che non vi fosse nulla di illegale erano i collaudatori regionali, la cui nomina era, secondo Mattarella, da rivedere: era statisticamente impossibile che nessuno dei collaudatori avesse mai rilevato irregolarità negli appalti.
Nella terra in cui Giulio Andreotti si recava spesso per far visita al boss Stefano Bontade sottomettendosi alle sue volontà e lasciandosi persino umiliare come un picciotto qualsiasi, accadeva anche che proliferassero indisturbate le frange neofasciste, il cui unico desiderio era quello di vedere ritornare in libertà il loro leader Pierluigi Concutelli. I neonazisti siciliani erano riusciti da Palermo a entrare in combutta con la Banda della Magliana, a Roma. Per loro, Mattarella rappresentava un nemico perché aveva portato per la prima volta in Sicilia al potere il Partito Comunista, tramite una larga intesa trovata con l’onorevole Pio La Torre, e perché sostanzialmente aveva seguito gli insegnamenti politici di Aldo Moro con il suo impegno. Non si esclude inoltre la possibilità che in quel periodo, proprio per evitare un’ulteriore ascesa del PCI, gli estremisti siano stati avvicinati dagli uomini dell’operazione Gladio, il cui unico scopo era quello di prevenire una possibile invasione nell’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica.
La realtà che ha portato all’omicidio è dunque complessa. Fili e ragnatele si espandevano in continuazione e avevano più di un punto in contatto. Fare luce sull’omicidio Mattarella non sarà semplice né per il giovane procuratore Pietro Grasso né per i giudici che negli anni riprenderanno in mano il fascicolo, da Rocco Chinnici a Giovanni Falcone. Raccontare i fatti diventa allora cinematograficamente quasi controproducente. Il rischio per Grimaldi era quello di rimanere lui stesso vittima del complesso intreccio di relazioni e situazioni in corso, pendendo per una tesi o per un’altra. Là dove i fatti sono accertati dalle inchieste, il regista non teme di chiamare per nome e cognome le varie facce che si avvicendano su un palcoscenico tanto tragico quanto complicato. Diversamente avviene per quanto concerne i fatti su cui ancora oggi le versioni sono discordanti: in tal caso, Grimaldi rende suoi personaggi persone realmente esistite, le rende credibili e ne evidenzia il ruolo giocato nella vicenda, senza concedere sconti. In altri casi ancora mette in scena episodi mai accaduti ma verosimili, come quello che vede opporsi Pio La Torre in aula a Mario D’Acquisto, successore di Mattarella alla Presidenza.
Nel ripercorrere la vicenda, Grimaldi sceglie di mostrare per ben due volte l’omicidio di Mattarella e la sera che lo ha preceduto, quella della vigilia dell’Epifania in famiglia. Così facendo propone una sorta di spartiacque per mostrare cosa è avvenuto prima del delitto preparando il terreno all’evento clou e cosa è accaduto dopo, senza alcun timore di arrivare ai giorni nostri. Data la non facile spiegazione degli eventi, sceglie di ricorrere a una voce fuori campo, quella dell’attore Andrea Tidona, per dipanare i nodi cruciali. Il rischio era quello di cadere nella didascalia ma Grimaldi scongiura tale pericolo scegliendo come narratore il personaggio dell’ispettore Mignosi, che all’inizio della pellicola incontra Mattarella per denunciare gli imbrogli legati all’appalto delle scuole, citato prima. Così facendo, Grimaldi si affida a un narratore interno e onnisciente che, come Caronte, ci traghetta nell’inferno siciliano.
L’attacco, anche veemente ma giusto, contro la politica italiana e siciliana del periodo trova riscontro nei cartelli finali che accompagnano il film. Di ogni personaggio, ci viene infatti illustrato l’epilogo, spesso non particolarmente felice. Si ricordano gli otto pentiti che hanno parlato degli incontri di Andreotti con Bontade prima e Riina dopo (senza dimenticare Silvio Berlusconi e le dichiarazioni che i collaboratori di giustizia hanno fatto sul suo conto), l’uccisione di Salvo Lima tra le vie di Mondello alla luce del sole, la detenzione di Vito Ciancimino (colui che Grimaldi mostra durante un duro scontro, quasi fisico, con Mattarella, reso di aver “denunciato” il suo operato a Roma), il misterioso suicidio di Nicoletti (lanciatosi nel vuoto dal suo appartamento nella centralissima via Lincoln) e la morte di chi, in nome della giustizia, ha cercato di rendere Palermo un posto migliore in cui vivere, da Gaetano Costa a Giovanni Falcone, passando per Pio La Torre e Rocco Chinnici.
La realtà degli anni Ottanta viene ricostruita meticolosamente da Grimaldi, che da vero narratore non ricorre mai a filmati d’archivio. Per ripercorre la storia, il regista mostra filmati provenienti da una delle emittenti regionali di maggior caratura (TGS, Tele Giornale di Sicilia, legata al quotidiano più letto sull’isola) e prime pagine di giornali, come il Giornale di Sicilia e il più impegnato (e leggendario) L’Ora. I filmati, realizzati oggi con i volti dei giornalisti contemporanei, finiscono con l’infondere una certa autorevolezza al soggetto di Grimaldi con uno strano meccanismo psicologico che si insinua nello spettatore: oggi, di fatto, abbiamo una visione a 360° della vicenda e le parole pronunciate dai “nostri” giornalisti finiscono con il sancire definitivamente i fatti, senza ulteriori appelli o dubbi.
Bisogna dare adito a Grimaldi di avere scelto di raccontare anche il Mattarella privato senza cedere mai al pathos o al sentimentalismo. Con poche pennellate d’autore, restituisce un uomo che, in nome dei valori in cui crede, è ancorato a quella fortezza che è la famiglia. Sebbene politicamente affronti altre ben più agguerrite famiglie, nel privato crede in quell’istituzione che, per uno come lui cresciuto a pane e cattolicesimo, è fondante per la stessa società. Lo si vede relazionarsi con i figli, per l’ellissi con gli uomini della scorta (lasciati liberi di passare le festività e le domeniche con i propri cari) e con l’amata moglie Irma, una donna che, nell’unica intervista rilasciata tempo dopo per la Rai, si pentirà sempre di aver portato attasso, sfortuna, al marito quando questi candidamente gli manifesta la sensazione di sentirsi felice.
Dulcis in fundo, Grimaldi organizza un’opera corale in cui, nel nome del realismo più accurato, tutti i personaggi – a eccezione di Massimo, esponente della Banda della Magliana impersonato da Francesco Di Leva – sono interpretati da attori siciliani. Diverse generazioni di interpreti dell’isola si susseguono sullo schermo, dando corpo a ruoli ora più grandi ora minuscoli. Accanto agli azzeccati David Coco, Donatella Finocchiaro e Francesco La Mantia (rispettivamente Piersanti, Irma e Sergio Mattarella), si distinguono Tony Sperandeo alla sua ennesima prova madre nei panni di Vito Ciancimino e Leo Gullotta, la cui mimica facciale ben restituisce un personaggio emblematico come Rosario Nicoletti. Della grossa responsabilità di Tidona si è già detto in precedenza mentre fa piacere scorgere Guia Jelo (appare fugacemente nei panni della moglie di Nicoletti), Vincenzo Crivelli (è il neofascista Calcaterra) o Stefania Blandeburgo (nei panni della segretaria di Mattarella). Menzione particolare però meritano Sergio Friscia e il maestro Lollo Franco, chiamati a mettere in scena nei panni di Spatola e di Sindona una sequenza che, realmente accaduto, nemmeno la fantasia del più grande degli sceneggiatori avrebbe mai potuto pensare: quella dello sparo a una gamba del banchiere durante il falso rapimento. Curioso invece il circolo vizioso che si crea nel vedere il giovane Vittorio Magazzù nei panni dell’assassino di Mattarella. Per chi non lo sapesse, il promettente attore palermitano ha dato volto al personaggio di Leonardo Abate nella serie Rosy Abate, figlio dell’eponima protagonista, una donna nelle cui vene scorre(va) sangue misto a mafia.
Vale infine la pena vedere scorrere i titoli di coda: quasi alla fine, il regista dedica il suo film a tre grandi nomi dello spettacolo siciliano: Gigi Burruano, Pino Caruso e Tony Cucchiara (autore della struggente Dove volano i gabbiani, inserita nella colonna sonora), scomparsi prima delle riprese.
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Link utili:
- Intervista ad Aurelio Grimaldi
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Pietro Cerniglia.
©2020 Mondadori Media S.p.A. – Riproduzione riservata
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