Regia di Kazuya Shiraishi vedi scheda film
Far East Film Festival 21 – Udine.
Ogni personaggio, argomento o periodo storico torna buono per impaginare un biopic da diffondere su larga scala. Il più delle volte, viene seguito pedissequamente un personaggio iconico, gli angoli sono smussati per non innervosire la massa e il contorno non è altro che un coro manicheo, un apparato che avvalora una tesi appiattita sul mito.
Dare to stop us guarda oltre il personaggio che omaggia con incontaminata passione. Deposita un occhio di riguardo per chi è imploso prima del tempo ed evidenzia un rimando su una secondary culture attualmente più invisa che mai, soprattutto all’interno delle società più evolute, che ostacolano il libero arbitrio nonostante professino tutt’altra predisposizione.
Il film si limita alla stagione che va dal 1969 al 1972, seguendo la bucolica attività di Koji Wakamatsu (Iura Arata), esercitata a fianco di Masao Adachi (Yamamoto Hiroshi) e a un team appassionato, pronto a seguire il suo capitano prendendo il meglio così come il peggio, conscio delle infinite variabili quotidiane che un ego sconfinato elargisce.
Tra le varie figure del contorno, spicca Yoshizumi Megumi (Kadowaki Mugi), una ragazza ventunenne che non ambisce a recitare seminuda bensì alla regia.
Mentre Wakamatsu è sempre più battagliero, avventurandosi addirittura nel ventre molle del conflitto tra la Palestina e Israele, Megumi vede mutare le sue prospettive.
Dare to stop us è un esemplare che nobilita lo spunto biografico. Tiene sotto controllo l’egemonia della calligrafia e rispetta i personaggi che tratteggia, senza limitarsi alla figura del leader.
Quindi, emergono l’energia e la creatività ribelle di Koji Wakamatsu, con una visione scevra da alcuna costrizione, radicale e compulsiva, ma poi l’angolazione prediletta è cristallizzata su Megumi, una ragazza carica di buoni propositi ma insicura, una figura vitale e infine tragica, un punteruolo che manomette, una volta di più, lo stato della narrazione.
Così, l’umore è più variabile di una giornata primaverile vissuta sulle rive dell’oceano Pacifico, transitando da una critica ai costumi del tempo (che poi, è anche il nostro) a una missione da infiltrato nell’industria del cinema, che Koji Wakamatsu minava dall’interno, dal travaglio interiore di chi non riesce a conquistare casa base, anche quando arriva l’occasione imperdibile, alla vita che, nonostante tutto, deve andare avanti.
Un caleidoscopio a più fonti, che passa con immediatezza dalla leggerezza, comunque mai fine a se stessa, a segni più tetri, nel nome di una grande famiglia underground che lotta compatta e non dimentica nessuno, pur senza perdere mai di vista il suo orizzonte.
Un modus operandi impetuoso, che include talmente tanti impulsi da apparire vagamente sconclusionato, ma proprio sul finale, quando in molti crollano, ha la sterzata decisiva, quella che conferma tutto e non rinnega nulla, con un nucleo combattivo, la tristezza tributata a chi se n’è andato anzitempo, ma anche uno sguardo vigile su una realtà che non si ferma mai.
Così, il regista Kazuya Shiraishi (Birds without names, The blood of wolves) dà pieno lustro a tutte le figure che inquadra, in uno slalom continuo tra un film e il successivo, tra ripetuti eccessi e battibecchi quotidiani, lacerazioni che legittimano un’azione perdurante contro le bugie che zittiscono la società, senza limitarsi alla critica, optando per la rappresaglia artistica. Nel nome del cinema, tra passione, follia e un lavorio degno delle termiti, che abbattono ogni barriera fino allo sfinimento.
Provocatorio e infaticabile, fedele oltre al trapasso.
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