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Stasera ho vinto anch'io

Regia di Robert Wise vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Stasera ho vinto anch'io

di Inside man
9 stelle

 

Uno dei migliori esempi della breve stagione “neorealista” di Hollywood (tra gli altri vi si cimentarono DassinKazanHathaway), ovvero il tentativo di far convivere le logiche dello “Studio system” coi dettami della corrente italiana che - letteralmente dalle macerie - stava rivoluzionando i codici etico/estetici della settima arte, producendo un effetto di portata planetaria.

 

L’eclettico “artigiano” Robert Wise, ex-montatore di prim’ordine passato alla regia dopo aver fatto scempio, su incarico della RKO, de L’orgoglio degli Amberson (Welles  lo odierà a vita non senza ragioni), cercò sin da subito il riscatto artistico con un eccellente noir (Born to kill, 1947) seguito a ruota da questo gioiello meno classificabile, esibendo la non comune capacità di essere particolarmente ricettivo verso ogni tipologia di genere, tendenza stilistica o innovazione tecnica, assorbendone rapidamente i modelli con esiti non di rado significativi.

Attitudine che lo consacrerà tra i registi più versatili e popolari del secondo periodo d’oro hollywoodiano.

 

In Stasera ho vinto anch'io ci dà una dimostrazione di alta maturità sia formale che tematica nel ritrarre un degradato spaccato sociale urbano (pur senza rovine belliche) e nel pedinare le vicissitudini, condensate in appena 70 minuti, di “Stocker” Thompson, pugile sul viale del tramonto (un grande Robert Ryan), e sua moglie Julie (Audrey Totter), prima, durante e dopo l’ultimo fatidico incontro.

 

Il film, asciutto e senza fronzoli, dispiega un superbo e coraggioso utilizzo delle tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione (prima di High Noon), e sebbene la camminata notturna della consorte si svolga in parallelo rispetto agli accadimenti nell’arena pugilistica, il sapiente lavoro di montaggio non lascia dubbi sull’intento di rispettarne la continuità ideale.

Il risultato in termini di compattezza, fluidità e naturalismo è del tutto degno dei precursori francesi e italiani.

 

 

La conflittuale vicenda della coppia alle prese con uno snodo cruciale della loro vita (carriera fallimentare agli sgoccioli, problemi economici, visioni divergenti a cui dare un senso, un futuro quanto mai incerto), si innesca in una indefinita giungla d’asfalto disordinatamente inebriata dalla vittoriosa conclusione della guerra, pullulante di un’umanità mostruosamente varia, impregnata d’odio, di feroce cinismo individualista, intenta a divertirsi in maniera scomposta (emblematica a tal punto la rappresentazione del pubblico presente ai match), e già disposta a tuffarsi nell’epopea consumistica dei fifties.

Sembrerebbe esistenzialismo se non fossimo certi di trovarci nei teatri di posa della costa californiana nell’anno del signore 1949!

Eppure la riflessione intima, la malinconia del vivere, lo smarrimento, sono una presenza costante nel mood dei due protagonisti mentre la mdp li segue e marca alternativamente, lui nello spogliatoio ascoltando le illusorie aspirazioni dei colleghi e osservando la finestra della camera d’albergo dove ha lasciato la moglie, lei invece vagante a piedi per la città, tra divertimenti e tentazioni d’ogni tipo, compresa la fila ininterrotta di pullman in partenza per chissà dove (camminata che anticipa uno dei topos narrativi più in voga del cinema esistenzialista, ci tornano alla mente le immagini di Ingrid Bergman in Europa '51 e Viaggio in Italia, o di Jeanne Moreau in Ascensore per il patibolo e La notte).

 

 

In questa parte centrale la sceneggiatura di Art Cohn distilla accortamente caratteri ed esperienze con notazioni secche quanto incisive, proponendoci un corpus di boxeur teneri o tormentati, dal pugile suonato al credente per convenienza, dallo sbruffone pragmatico al giovane afroamericano di belle speranze lanciato verso un possibile titolo, mentre la signora Thompson, isolatasi dalla folla, medita sul possibile divorzio, sulla brutalità del mondo della boxe, prima di riprendere il suo vagabondare attraverso strade buie e deserte dopo aver strappato il biglietto di platea donatole dal marito (il neorealismo stelle e strisce che non riesce a rinnegare la propria natura, abbracciando inesorabilmente sia le contaminazioni noir sia certe reminescenze di ordine simbolico sulla connotazione moralizzatrice degli ambienti. Vedere per questo fra i capostipiti La folla di Vidor e Aurora di Murnau).

 

Certo non tutto è perfettamente al suo posto nella costruzione di Wise, perchè nel parterre a bordo ring la squallida fauna di losers, gangsters, intrallazzatori e voyeur sadici è fin troppo sottolineata.

Se l’atmosfera anonima e avvolgente del quadrato, moderna bolgia in cui i nuovi gladiatori combattono per una manciata di dollari, può dirsi davvero pregnante immersa com’è nella nebbia pulviscolare di fumo e lampade, in un bianco e nero contrastato da cui trasuda il caos e la sordida eccitazione (eccelso il lavoro alle luci di Milton Krasner), i feroci disperati che invece danno sfogo ai più bassi istinti (Ammazzalo! Uccidilo! Fagli male!), con donne eccitate dalla violenza dei colpi, grassoni in trance bulimica e persino un cinico non vedente compiaciuto dalla brutale radiocronaca di un accompagnatore, rasentano a più riprese l’eccesso bozzettistico.

 

 

In ambito formale la mobile e fluida regia di Wise (da ricordare come uno dei più scrupolosi seguaci del mitico Orson) risulta duttile soprattutto nell’uso delle tecniche più adatte allo scopo espressivo particolare, non tralasciando al contempo di integrarle con scioltezza alla più ampia impronta corale.

Carrelli piuttosto che dolly, zoomate o brusche panoramiche, profondità di campo e messe a fuoco intermittenti, tutto acquista una sua omogenea funzionalità come solo nel miglior artigianato, e se i long take e il montaggio parallelo appaiono ideali per cadenzare la prima parte, il puntuale montaggio alternato diviene ineludibile nelle fasi durissime del match, orchestrando un frammento di cinema impeccabile per ritmo e tensione (oltretutto filtrato dalle retoriche del coevo Champion diverrà un canone capace di influenzare a 40 anni di distanza, persino Scorsese  e il suo Toro scatenato).

 

 

P.S: Per una volta spezzerei una lancia a favore dei titolisti italiani, soprattutto in virtù della quasi intraducibilità del titolo originale (secondo Cambridge dictionary: The Set-Upa situation in which someone is tricked into doing something or is made to seem guilty of something they did not do, di fatto otto lettere esaustive come poche di una sinossi, e oggettivamente sarebbe stato chiedere un po’ troppo per la lingua di Dante...).

 

Al contrario nessuna accondiscendenza per il mediocre, raffazzonato, doppiaggio proposto su Raimovie, il quale costringe a un ingente sforzo mentale di rimodulazione emotiva (del tipo "chissà che sensazione mi avrebbe dato questa battuta, questo effetto sonoro ecc.…). In mancanza di meglio TRACCIA ORIGINALE E SOTTOTITOLI PLEASE!

 

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