Regia di Denis Côté vedi scheda film
Di distacchi, connessioni, commiati, ricongiungimenti, transizioni ed altre levitazioni.
Noi siamo (i) vivi e voi siete (i) morti.
Potranno e dovranno pur’anch’esser belli, quei luoghi, d’estate, ma l’altresì breve stagione che incendia la pelle e rende il cielo come dev’essere - ovvero portato in allucinante ed abbacinante bilico in abissale sprofondo fra l’indaco e l’ultravioletto dalla media aritmetica ponderata tra lo scattering di Rayleigh e i conico-bastoncellici fotorecettori dell’occhio umano - adesso è lontana, di là da venire, e l’inverno impera da un numero sufficiente di mesi tale da poter raggiungere la definizione di ≅ sempiterno.
Il trucco è andare a letto presto e sperare insieme nell’avvenire.
La prematura scomparsa - causata dalla violenta ed improvvisa sterzata imposta dal sistema occhi e arti superiori agente attraverso il volante sull’asse delle ruote anteriori di una berlina lanciata a gran velocità s’una strada di campagna libera e senza ostacoli fatto salvo il fatto di crearsene uno fuor di carreggiata qual è stato il mucchio di blocchi di calcestruzzo per fondamenta erto a bersaglio per l’occasionale bisogna - di un giovane virgulto di un villaggio di 215 anime, Sainte-Irénée-les-Neiges (Québec), getta gli abitanti del borgo in un pacato sconforto che va a sommarsi a quello portato in paese dalla chiusura della miniera avvenuta anni prima con guiderdonica contropartita compensatrice di pale eoliche.
Quattro ragazzini usciti da un mash-up fra un allestimento di home-art post-mortem ricavato da un catalogo di dagherrotipi e da una collezione di album fotografici di famiglia [“the Others” - si pensi a tal proposito anche al ripopolante riappropriamento della magione avita da parte dei proprietari sfrattati dall'esistenza (per cause naturali, incidenti o per fatti di sangue, come tutti) nel tempo che fu - e “BlancaNieves”] e il folto schieramento in accatastante accumulo di una lunga teoria di videoclip in serie di Sigur Rós ed Aphex Twin giocano a rincorrersi tra la vecchia neve squagliata e ingrigita dal tempo in un paesaggio costellato di rottami industriali la cui dipartita non ha però lasciato come condizionale eredità la ricompensa evolutiva di uno sviluppo terziario.
La morte - così come con lei, di pari passo, la nascita - non rientra fra i quotidiani eventi comunemente giornalieri a quelle coordinate perse nel cratone nordamericano tra le prime propaggini della taiga e le pianure mediamente coltivabili dell’altopiano laurenziano lungo la zona meridionale dello scudo canadese, ma gli a loro modo fatalisti protagonisti di questo psico-fanta-dramma rurale oppongono, come muschi e licheni durante un protratto periodo di siccità, una strenua ma composta difesa all’inevitabile inaudito che li sferza oltre le intemperie.
Scritto da Denis Côté (classe 1973), regista canadese (artefice di corto e lungometraggi di finzione e documentari: “Carcasses”, “Curling”, “Bestiaire”, “Vic + Flo Ont Vu un Ours”, “Que Ta Joie Demeure”, “Boris Sans Béatrice”, “Ta Peau Si Lisse”, “Wilcox”) indipendente (per la circostanza produce Ziad Touma, già al lavoro con Denise Villeneuve per “Incendies”) di lingua francofona (è québécois, ma di origini brayon), ispirandosi al romanzo omonimo dello scrittore suo connazionale e co-locutore Laurence Olivier, “Répertoire des Villes Disparues” (titolo internazionale: “Ghost Town Anthology”) è la messa in scena con misterico sottotesto a corollario e corredo di misticanza dello spopolamento campestre da parte dei vivi sopravviventi e relativa gentrificazione delle divenenti badlands da parte dei resisi defunti più o meno nel corso dell’ultimo secolo (quindi con qualche d’uno di vivo che può, dopo averne individuata la presenza, riconoscerne l’identità) ed ora ritornanti a calcare da risorti (con suggestioni stilistiche e di gestione del corpo delle persone inserite nel paesaggio esterno e nello spazio del set interno che ricordano tanto il creatore della mitopoiesi postmoderna qui - benché collateralmente - in essere ed in esame, George A. Romero, quanto il cinema - e penso soprattutto a “Canzoni del Secondo Piano” e “Un Piccione Seduto su un Ramo Riflette sull'Esistenza” - di Roy Andersson) la Terra.
L'autore in quest’ora e mezza (e durante questi 90 minuti vi sono molti momenti sospesi, ma nessuno che viene a noia) sugli altri, gli estranei, i visitatori, ci dice quel che sapevamo già: accettazione, scorciatoia per la “felicità”. A volte le conferme non solo non sono inutili, ma possono anche essere confortanti.
Più o meno ineludibili e sostanziali allacci formali e contenutistici con “the Sweet HereAfter” di Russel Banks e Atom Egoyan (con l’automobile di Simon, lo sfortunato e/o distratto e/o suicida collocato a riposo per l’inverno nella rimessa del giardiniere, a guisa di sineddoche per l’autobus scolastico) e “les Revenants” prima di Robin Campillo e poi di Fabrice Gobert. Un pensiero dicotomico può andare anche al magnifico “Dawson City: Frozen Time” di Bill Morrison, e, perché no, a “la Région Centrale” di Michael Snow.
Fotografia (16mm) di François Messier-Rheault e montaggio di Nicolas Roy, entrambi collaboratori abituali del regista. Eccellente sound design. Presentato in concorso al 69° Festival di Berlino del 2019.
Di distacchi, connessioni, commiati, ricongiungimenti, transizioni ed altre levitazioni.
In mezzo ai suoi compaesani, ma in iconicamente peri/mira-colante posizione (in)naturalmente sopraelevata rispetto ad essi, il personaggio dumontiano - il santo assassino che si libra su rucola e cicoria (ma che non sfigurerebbe se immesso in una rappresentazione nei territori dreyer-tarkovskijani) - di Adèle, interpretato ottimamente da Larissa Corriveau (anche lei già al lavoro con Denis Villeneuve per una piccola parte in “Polytechnique”), spicca e s’incista nella memoria. Da viva. E limine.
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