Regia di Zhang Yimou vedi scheda film
L'anti-estetica del Dogma 95; i dialoghi protratti, i toni grotteschi e le situazioni paradossali di Tarantino; la leggerezza, i cromatismi, la poesia adolescenziale del primo, sublime Wong Kar-Wai: il cinese Yimou sintetizza tre idee di cinema in voga sul finire degli anni 90. E lo fa nel segno di una Nouvelle Vague e di un Free Cinema apertamente citati nella frenesia del montaggio, nell'esuberanza dei personaggi e nel vitalismo della messinscena. Non contento, Yimou, formalista poliedrico di onesta furbizia, di quelli capaci di camuffare perizia stilistica e indiscutibili idee di cinema dietro ad una forma apparentemente approssimativa, si concede all'inizio persino qualche scorcio futurista, coi grattacieli ripresi da angolazioni impossibili, come le architetture sovietiche nei film di Eisenstein, e con i volti umani schiacciati sul fondo dell'inquadratura, di sbieco, come nel Dovzenko più epico. Se registicamente, questo film si lascia ricordare volentieri, quello che lo rende particolarmente prezioso è l'aspetto contenutistico. La sceneggiatura, che nelle prime battute appariva così esile, merita un plauso per l'approfondito disegno dei caratteri, il ribaltamento degli schemi del noir (con la femme fatale confinata in meno di metà film), la dilatazione esasperata della scena madre, ma soprattutto per il discorso non banale imperniato sui molteplici confronti fra la gioventù cinese americanizzata e gli antichi ideali confuciani, fra l'impulso e la ragione, il caso e la volontà, la lucidità e la pazzia. Si riflette sul ribaltamento dei ruoli, sul confondersi degli umori, sulla convivenza fra violenza, amore ed umorismo, sull'ambivalenza delle persone e dei loro comportamenti: il tutto senza mai smarrire un faro "morale" (come invece spesso accade in tanto cinema post-moderno), qui cercato e trovato in una nuova definizione dell'amicizia virile e intergenerazionale.
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