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Clemency

Regia di Chinonye Chukwu vedi scheda film

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La recensione su Clemency

di OGM
7 stelle

Bernardine, per professione, accompagna i condannati alla pena capitale, fino al momento dell'esecuzione. Rimane accanto a loro, li vede morire. Continua a farlo, perché è inevitabile. Non esistono alternative. Quel tipo di giustizia è l'unica logica possibile. Per lei è così. Questa è l'inappellabile condanna che le è stata inflitta.

Lento. Il pensiero gira a ritmo moderato dentro i corridoi del braccio della morte. I fotogrammi scorrono sobri e lisci, come si addice ad oggetti levigati, quando attraversano uno spazio vuoto, nella quasi totale assenza di attrito. Le carceri viste da dentro, solitamente, ci offrono immagini ben diverse: ci aspettiamo che l’obiettivo ami posarsi sulle superfici ruvide dei visi, delle pareti delle celle, dell’apparato giudiziario che funziona a scatti, inceppandosi ad ogni perché irrisolto. Il sovraffollamento viene spesso a ricordarci visioni infernali, di dantesca memoria, ed allora pensiamo alle prigioni come ad un altro mondo, in cui l’umanità si sfigura, e la cattività è quella tipica degli animali in gabbia. Non penseremmo mai all’esatto contrario di tale scenario straripante e bestiale, denso di rabbia, traboccante di disperazione. Questa storia, invece, è tutt’altra cosa. L’universo di Bernardine Williams, funzionaria responsabile delle esecuzioni capitali di un penitenziario americano, è governato dalla rarefazione. L’atmosfera è sottile come un filo, tanto che manca il fiato. In quel luogo si inizia a soffocare prima di stendersi sul letto a forma di croce tra cinghie, fili elettrici e tubicini, per interpretare la sequenza finale, immobilizzati nella pretesa innocuità del moderno supplizio tecnologico. Le anime partono con largo anticipo, rispetto a quell’ultimo volo. I personaggi sono ridotti alla voce acuta e sopra le righe delle loro riflessioni, ormai sconnesse dalla realtà. I discorsi non riguardano mai l’oggi, né il domani, perché tendono a librarsi nell’astratta dimensione del per sempre, nella quale vivono il significato eterno dell’amore, l’immortalità della speranza, il valore del perdono, l’impossibilità di sottrarsi al proprio destino. Questo film respira, con il torpore che precede l’asfissia, i tiepidi effluvi della perentorietà: c’è qualcosa di invisibile e mostruoso, tra le mura di quel luogo di condanna, che impedisce il mutamento, escludendolo a priori, come se la giustizia si esprimesse unicamente come irrevocabile assegnazione di una parte, definita da obblighi inderogabili, e sostenuta da un potere poggiante sui divieti. Il racconto si muove, a passi pesanti, intorno alle varie declinazioni del no, dal rifiuto della grazia, all’incapacità di dare e ricevere conforto, di attuare i valori in cui credono tutti, come il dovere di ricercare la verità ed il rispetto per la vita. La sensazione generale è quella di una volontà bloccata, senza motivo apparente, da una presenza silenziosa, titanica ma innominata, che invade anche i recessi più intimi della sfera privata dei protagonisti (vittime e assassini, avvocati e religiosi, funzionari e gente comune)  condizionando le  relazioni affettive, i legami familiari, le scelte professionali.  Il dramma, quando il dubbio fugge via, diventa tragedia. L’impotenza è assoluta, nel momento in cui non si è nemmeno più in grado di formulare domande. I manifestanti, là fuori, urlano l’impellente necessità di un cambiamento. Ripetono i loro slogan notte e giorno, con inquietante monotonia, come per suggellare l’irrimediabile fissità delle circostanze. Intanto l’ambiente si mantiene algido e asciutto, in preda a rituali crudeli e svogliati: sono episodi di un teatro austero e trattenuto con inverosimile sforzo, in cui le lacrime e il sangue sono incidenti di percorso da cancellare per uno straziante senso di vergogna.   

 

Alfre Woodard

Clemency (2019): Alfre Woodard

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