Regia di Dan Gilroy vedi scheda film
Nello squadernare in modo disorganico le vicende grottesche di questa satira feroce sulla vacuità delle virtù estetiche dell'arte contemporanea e sulla mercificazione dello spirito, l'impercettibile scivolamento verso i territori altrettanto illusori del thriller fantasmatico si concretizzano con la vendetta del più classico dei contrappassi.
Un critico d'arte, una gallerista e la segretaria di quest'ultima sono coinvolti nella tardiva riabilitazione di un anziano e misconosciuto pittore morto in solitudine. Lo sfruttamento commerciale postumo delle opere del defunto però, contravviene espressamente alle sue ultime volontà testamentarie, scatenando una serie infausta di eventi da cui i tre protagonisti saranno inevitabilmente travolti.
The Los Angeles Buzzsaw Massacre
Terzo film da regista per lo sceneggiatore e figlio d'arte (padre scrittore e madre scultrice) Dan Gilroy, anche questo incentrato sulla perdita dell'innocenza ed il tradimento di una ideale missione professionale (la cronaca nera, l'avvocatura pro bono, le arti figurative) sullo sfondo di una altmaniana Los Angeles di 'protagonisti' (per sua stessa ammissione) coinvolti negli intrighi faustiani di una dilagante mercificazione dello spirito. Se anche qui la partitura del racconto sembra mettere in rapporto committenti ed esecutori materiali quali convitati di pietra di una produzione culturale che trova il suo senso nel mercato e nelle sue spietate leggi economiche, il focus finisce per concentrarsi proprio su una classe (inter)media di sensali e intermediari vari; una galleria umana di profittatori che sfruttano l'arbitrio morale della propria posizione di potere per esercitare i loro inestricabili traffici di influenze ed indirizzare il gusto (macabro) e la domanda (fatua) del loro target di riferimento; siano essi spettatori attratti dal sensazionalismo morboso della cronaca nera, burattinai di un sistema legale corrotto e corruttore o facoltosi investitori pronti a sfruttare i vantaggi fiscali di un bene mobile altamente flessibile e remunerativo. Nello squadernare in modo disorganico le vicende grottesche di questa satira feroce sulla vacuità delle virtù estetiche dell'arte contemporanea (il gallerista che si ferma ad ammirare i veri sacchi della mondezza nello studio del pittore Malcovich di cui avrebbe dovuto valutare invece l'ultima tela), l'impercettibile scivolamente verso i territori altrettanto illusori del thriller fantasmatico si concretizzano nel più classico dei contrappassi, laddove ciascuno dei protagonisti soccombe per mano dell'oggetto d'arte (yokai o tsukumogami direbbero i giapponesi) che aveva inopinatamente dileggiato o rinnegato, tutti comunque vittime di una trasgressione alla sacra divinità di un'arte della rappresentazione che trova nella purezza di un sentimento indicibile (la follia di un ideale estetico irrazionale e di una sotterranea avversione familiare alla André Bloch) il suo solo fondamento e come tale destinato a scomparire insieme al suo enigmatico creatore lasciando dietro di sè una lunga lunga scia di sangue. Scelta azzeccata di un casting che richiama nomi cari a Gilroy quali Jake Gyllenhaal e Renè Russo, moglie del regista; come altri che seguono una corente logica da physique du role: Toni Collette (vittima sacrificale di horror sanguinari) , Zawe Ashton (ambigua seduttrice dalla pelle d'ebano), Natalia Dyer (la segretaria portacaffè di Stranger Things) e John Malcovich (artista stralunato in cerca di ispirazione sul bagnasciuga di Malibù che rifà il verso a se stesso); tale è pure la scelta dei nomi dei personaggi (di cui l'autore confessa di fare da sempre 'collezione') con la di chiarata intenzione di evocare attraverso gli eventi di finzione una verosimile epica di un immaginario noir metropolitano su cui batte perennemente il sole.
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