Regia di Roman Polanski vedi scheda film
È in un’esibita classicità che si consuma il sarcasmo di Roman Polanski nel mettere in scena il caso Dreyfus, nella compostezza di inquadrature abitate dai fantasmi degli impressionisti, in una recitazione altamente formale, con quasi l’intero cast prelevato dalla Comédie Française, attraverso una regia attenta al realismo della composizione e al dettaglio della cronaca. In quello che pare un radicale omaggio al cinéma de papa pre-Nouvelle Vague (e che potrebbe far sospettare un declino del regista verso un cinéma de papy), con una dizione perfetta e un’intonazione modulata nella resa degli interpreti e una regia compatta fino ad essere compassata nell’evitare slanci melodrammatici o figure di retorica poesia, Polanski instilla un palpabile malessere, scava il tarlo del disagio che abita ogni suo film. Si respira, infatti, ne L’ufficiale e la spia un’aria di claustrofobico formalismo, l’atmosfera asfissiante di una vita, sociale e privata, condizionata da regole e da omissioni, guidata da taciuti luoghi comuni e da stringenti clausole di comportamento. In tale contesto, l'antisemitismo non è allora altro che una consuetudine nella Francia di fine Ottocento, un razzismo normalizzato nella quotidianità sino all’ironia, involontaria o malevole. E l’evidenza del realismo impresso al film diventa talmente calligrafica da sfociare nel soffocamento di ogni iniziativa, mentre il racconto crea un reticolato di sabbie mobili che imprigionano i personaggi in un codice antico e stantio, silenzioso e opprimente, fatale e avverso. Pur svolgendosi un ventennio prima, J’accuse rievoca inevitabilmente l'ambientazione militaresca e le tematiche di crudele ottusità istituzionale di Orizzonti di gloria, a lungo interdetto in Francia, il cui contrastato bianco e nero si stempera nel grigiore della recente pellicola, mentre la grinta rabbiosa di Douglas lascia il posto alla metodica razionalità di Doujardin. Polanski sembra procedere con una narrazione articolata ma densa, incentrata non tanto sul destino dell’innocente confinato sull’Isola del Diavolo quanto sull'involontaria ma caparbia investigazione di uno dei suoi accusatori, incapace a posteriori, di fronte a nuove evidenze, di accettare altro dalla realtà dei fatti. Paladino della sola verità, scissa da pregiudizi morali o sociali, l’ufficiale Picquart combatte affinché sia fatta reale giustizia, l’unica dignitosamente accettabile, al costo di sacrificarvi carriera e vita privata. Ma non è un outsider o un proto-maverick all’americana con ambizioni anti-sistema il francesissimo Picquart, bensì un servitore dell’Esercito e dello Stato che, proprio nella risolutezza della sua adesione alla veridicità, trova la forza di distinguersi dal corpo degli ufficiali e dei politici corrotti per pigrizia, incapaci di correggere l’evidenza di un errore e di accettarne umilmente le conseguenze. Solo nel privato Picquart sembra distinguersi dalla norma, intrattenendo una relazione di amore contraccambiato con la moglie di un amico e senza alcuna voglia di convolare a nozze, senza per questo minare consapevolmente la riconosciuta sacralità dell'istituzione matrimoniale che, però, ne risulta incrinata. Nella sua classicità formale, il film attraversa generi e sottogeneri moderni, spaziando dal thriller a legal drama, dall'indagine deduttiva all’empirismo scientifico di analisi alla CSI, imbevuto dalla paranoia di un ordito complottistico con automatiche reminiscenze hooveriane e maccartistiche della storia americana (è tratto da un romanzo dell’inglese Robert Harris, già all’origine dell’Uomo nell’ombra del regista polacco), con un accenno di spy-story internazionale, risolta però presto nella grossolanità del solo interesse economico, con un infiltrato dedito al gioco e all’intrattenimento dei sensi e un ridicolo confronto in duello che demolisce definitivamente qualsiasi ambizione di spessore del delatore. Ma ogni elemento ascrivibile ad altre vicenda o tendenze viene ricucito all’interno di una trama eminentemente kafkiana di allibito stupore sui meccanismi di funzionamento e imprigionamento dell’apparato sociale, il cui protagonista viene relegato fisicamente agli antipodi dell’ “Hexagone” e, letteralmente quanto metaforicamente, ai margini della narrazione e della comunità. Motore assente del racconto, Alfred Dreyfus diventa quasi mero pretesto per un film che, in fin dei conti, è forse il cinico ritratto di un nobile opportunista, promosso da ultimo alle massime cariche dello Stato proprio per il suo impegno a favore di quell’estraneo che nemmeno stimava. Perché, in fondo, quasi più della vicenda in sé e della dovizia di dettagli storici e di profili privati che il film offre allo spettatore, è nella normalità del classismo e del razzismo, di un’altezzosità radicale che vede in ogni alterità una minaccia, in ogni diverso un nemico, che Polanski sembra offrire il livido specchio dei nostri giorni, sottolineato da una fotografia che sembra spaziare nell’intera gamma del grigio, quasi senza sprazzi di colore. Ed è proprio nella lucidità del chiaroscuro, di un formalismo così dichiarato da risultare di facciata, nel tratteggio senza gloria di una società piena di sé quanto vuota di senso, che si fa spazio una spietatezza sarcastica dai toni surreali che annulla, potenziandosene, l’esteriorità pacata delle immagini, la teatralità della recitazione, il posizionamento ad altezza d’uomo della macchina da presa e un punto di ripresa quasi sempre orizzontale. In questa regia apparentemente anodina si cela il disagio della colpa del protagonista, l'implicita condanna di ogni ordine noto, sociale e militare quanto civile, la distruzione nella vacuità e nell’ipocrisia di qualsiasi preesistente certezza, fino a farne un sonnambulo in un incubo ad occhi aperti, una marionetta che disperatamente tenta di liberarsi dai fili che lo imbrigliano. In quella lotta tra accademia e modernità, tra rigido passato e più morbido presente, quel burattino ribelle sembrerà trovare una inedita pace in un nuovo teatro in cui pare fare il capocomico, preludio solo ai futuri orrori del secolo breve, che si apre quando il film termina, nella nota amara di un incontro tra accusato e difensore che non risolve gli antichi attriti e relega ancora i due personaggi agli antipodi della società.
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