Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Polanski confeziona un magistrale thriller storico, avvince con stile rigoroso e porta avanti la sua denuncia dell'antisemitismo evitando la retorica e concentrandosi piuttosto sui fatti della contro-indagine. Al rigore della ricostruzione, abbina la bellezza e la cura meticolosa della messinscena nel ricreare un affresco smagliante dell’epoca.
VOTO: 8,5 su 10.
Intitolato in originale J’accuse come il celeberrimo articolo di Emile Zola, il film dell’ottantaseienne in ottima forma autoriale Roman Polanski affronta il noto affaire Dreyfus, vicenda che rivelò le radici profonde dell’antisemitismo nella società e nell’establishment della Francia di fine ‘800, per cui un capitano di origine ebraica rappresentava il colpevole perfetto da additare alla pubblica opinione per il crimine di tradimento. Polanski la ricostruisce partendo dall’indagine di Georges Picquart (Jean Dujardin) un ufficiale, non scevro da personali pregiudizi anti-ebraici ma ligio sopra ogni cosa al senso del dovere e della giustizia, che attraverso il suo nuovo incarico a capo ella sezione dei servizi segreti scopre insabbiamenti e macchinazioni nel caso che aveva portato alla condanna del capitano Alfred Dreyfus (Louis Garrel) alla deportazione sull’Isola del Diavolo come spia tedesca.
Insieme a Martin Scorsese con The Irishman, un altro grande vecchio del cinema lascia il suo segno indelebile su questo 2019. Polanski confeziona un magistrale thriller storico, ricostruendo la vicenda sulla base del romanzo di Robert Harris, adottando il punto di vista di Piquart piuttosto che quello di Dreyfus (o di Zola, che appare solo brevemente). Il film avvince con stile rigoroso e porta avanti la sua denuncia civile evitando la retorica e concentrandosi piuttosto sui fatti. Il regista costruisce la tensione narrativa seguendo passo passo la contro-indagine di Piquart, tra lettere rincollate e perizie calligrafiche, le crescenti resistenze e opposizioni che sempre più incontra man mano che si avvicina alla verità e poi la riapertura del processo, inscenando nella parte finale un efficace court-room drama.
Al rigore della ricostruzione storica, Polanski abbina la bellezza e la cura meticolosa della messinscena nel ricreare un affresco smagliante dell’epoca. Per un film che condanna l’ottusità del militarismo e l’arroganza delle gerarchie dell’esercito, c’è uno spiccato gusto estetico per la ricostruzione splendida delle uniformi e delle cerimonie militari dell’epoca, a cominciare da quella coreografica dell’umiliante degradazione del condannato Dreyfus con cui si apre l’opera, per passare alle schiere di uniformi sfavillanti schierate di fronte al Tribunale in cui si celebra il secondo processo, da attraversare come le acque del Mar Rosso per giungere all’aula di giustizia. E poi le discussioni nei parchi parigini, vere e proprie trasposizioni su celluloide dei quadri impressionisti come il Déjeuner sur l’herbe di Manet, alla cui luminosità si oppone l’oscurità claustrofobica dei tetri uffici del controspionaggio. E la ritualità del duello a difesa del proprio onore (altra coreografia perfetta), come nella tradizione aristocratica ottocentesca.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta