Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Questo film, tra i più grandi film politici di Polanski, era da Leone d’oro: il pubblico attentissimo, silenzioso e commosso, che ha affollato le sale torinesi in questi giorni, lo ha capito benissimo.
Un quarto di secolo dopo la sconfitta di Sedan (1870), la Francia, costretta a cedere alla potenza tedesca una parte del suo territorio nord-orientale, attraversava un periodo di crisi economica e sociale di vaste proporzioni, nel dilagare delle proteste e della povertà, fra propositi revanscisti, nazionalismo crescente, ricerca di colpevoli…
Il clima era da caccia alle streghe, da nemico alle porte, mentre la coesione del tessuto sociale sembrava disgregarsi.
Tirava un’aria mefitica e irrespirabile per i socialisti, le minoranze, gli ebrei: tutti presto indicati come responsabili della disfatta, in realtà comodi capri espiatori delle tensioni e dello scontento generale. In questo clima torbido ed eversivo di montante antisemitismo, nazionalismo e diffidenza istituzionale era nato L’affaire Dreyfus.
Il film ricostruisce la brutta vicenda di Alfred Dreyfus, l’ufficiale di artiglieria alsaziano di origine ebraica, processato, privato dei gradi e dell’onore militare e, infine, esiliato all’Île du Diable, nella Guyana francese, perché riconosciuto colpevole di alto tradimento, durante un processo-farsa, senza esibizione di prove.
Il romanzo recente (An Officer and a Spy) dello scrittore inglese Robert Harris, aveva fornito il soggetto per la bella sceneggiatura di Polanski e dello stesso romanziere da cui nasce la pellicola, ovvero il racconto di uno degli episodi più scabrosi della storia europea.
Il film si apre con il lunghissimo piano sequenza in cui scorrono lentamente i grigi edifici che affacciano sul cortile degli Invalides, presso l’Ecole Militaire di Parigi.
È la gelida mattina del 5 gennaio 1895: tutto era pronto per l’umiliazione pubblica della degradazione di Alfred Dreyfus (Louis Garrel), non lontano dalla scuola in cui aveva studiato. La camera che gli si avvicina ne presenta il volto pallidissimo, mentre ascolta, sull’attenti, le accuse infamanti di aver fornito informazioni delicatissime, attinenti ai segreti militari della repubblica francese, ai nemici tedeschi. La scena ricalca, con impressionante fedeltà, l’ illustrazione di un giornale dell’epoca, offrendoci, al contempo, qualcosa di più e di diverso: lo sguardo dell’innocente, schiacciato dalla mobilitazione imponente degli apparati militari (quel cortile maestoso ne è una bella metafora), è così doloroso e la sua protesta di innocenza è così dignitosa da turbare persino l’ufficiale che aveva eseguito con impeccabile freddezza l’operazione.
Si trattava del maggiore Marie Georges Picquart (un grandissimo e umanissimo Jean Dujardin), che era stato chiamato, subito dopo la “cerimonia”, a dirigere l’Ufficio Statistica dei servizi segreti, all’interno dell’Ecole Militaire, in sostituzione del moribondo ufficiale che ne aveva custodito i documenti. Tutta la prima parte del film procede realisticamente alla ricostruzione dell’ambiente chiuso e maleodorante della palazzina, sede di quell’ufficio, attraversata da corridoi bui e fumosi, frequentata da equivoci informatori, oltre che da ufficiali diffidenti e riluttanti a fornire al nuovo capo chiavi, documenti e notizie necessarie a quasiasi attività di controspionaggio, ciò che non sfugge a Picquart, che sulle informazioni al nemico egli vorrebbe indagare, non essendo mai cessate, neppure dopo l’allontanamento all’Isola del Diavolo, nella Guyana francese, del povero Dreyfus.
La sua indagine fa presto emergere alcune fondamentali verità:
– non è Dreyfus il vero informatore dei tedeschi, bensì Ferdinand Esterhazy, ufficiale dell’esercito francese, puttaniere e oberato dai debiti
– è crescente l’ostilità dello stato maggiore dell’esercito e del governo in carica nei confronti dell’inchiesta
– è l’onesto Picquart il nuovo nemico, ora: lo si pedina, lo si minaccia velatamente, si organizza una campagna diffamatoria nei suoi confronti, costringendolo, infine, al passo decisivo, all’incontro con la stampa, con alcuni prestigiosi intellettuali fra i quali Emile Zola e con Clémenceau, deputato di opposizione, per rendere pubblico lo scandaloso processo a Dreyfus.
J’accuse è il famoso titolo dell’editoriale di Zola sul quotidiano L’Aurore che diffonde rapidamente a Parigi i nomi e i cognomi di quanti, dai politici, agli uomini dei Servizi Segreti e dello stato maggiore, ai giudici, si erano fatti complici dell’ingiustizia senza perseguire i corrotti e i veri colpevoli di tradimento. La vicenda non si era ancora chiusa: altro dolore attendeva molti innocenti onesti, come Picquart, incarcerato quale complice di una fantomatica internazionale ebraica, o come Pauline (Emmanuelle Seigner), la sua amante, sposata, cui vengono tolti i figli.
Un po’ di luce, però, era penetrata nel buio di quelle stanze e molte delle bugie erano state smascherate…
Non intendo svelare altri sviluppi del film.
Il film è un coinvolgente e appassionante racconto classico di detection che si trasforma in una tesa storia di spie e di complotti, ed è particolarmente affascinante grazie anche alla fotografia bellissima, dal colore leggermente sbiadito e annebbiato, che porta con sé i segni del tempo senza cancellarne la verità, ovvero la sua faccia corrotta e impresentabile: l’oscura dimensione della Belle Epoque.
I registri del racconto sono quelli dell’indignazione, del dolore, dell’ironia che sottolinea i comportamenti ridicoli e contraddittori di un mondo vecchio, incapace di resistere alla mortifera tentazione di chiudersi al mondo, incosciente di trascinare con sé, alla rovina, l’intero paese.
Non solo una raffinata e accurata illustrazione del passato, perciò, ma un invito potentissimo a non dimenticare che le peggiori ingiustizie nascono dall’odio e dal pregiudizio alimentati dal disagio sociale e dall’incertezza del futuro, terreno di elezione per demagoghi e cialtroni di ogni tempo, anche del nostro.
Col gran premio della giuria (Leone d’argento), la Rassegna d’Arte Cinematografica veneziana di settembre ha trovato un compromesso al ribasso per chiudere l’imbarazzante parentesi delle dichiarazioni sciagurate di una presidente di giuria indegna di ricoprire la carica prestigiosa che, incautamente, le era stata affidata. Questo film, tra i più grandi film politici di Polanski, era da Leone d’oro: il pubblico attentissimo, silenzioso e commosso, che ha affollato le sale torinesi in questi giorni, lo ha capito benissimo.
* Con Roman Polanski Robert Harris aveva già sceneggiato un altro film politico, L'uomo nell'ombra (2010)
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