Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Nella Francia repubblicana, sul finire dell'800, si consumò un caso giudiziario rimasto nella memoria collettiva e ancor oggi oggetto di dibattiti e riflessioni. L'Affaire fu un evidente esempio di malafede che costò al capitano dell'esercito francese Alfred Dreyfus l'umiliazione della condanna per tradimento e la degradazione davanti ad un plotone e ad un popolo imbestialito, riuniti in una pubblica sceneggiata. Il passo successivo fu l'esilio nell'isola del Diavolo nei territori francesi della Guyana. La fuga di notizie dall'esercito francese verso quello tedesco che montò il caso di tradimento richiedeva una punizione esemplare ed un monito credibile. Alfred Dreyfus non era colpevole ma sacrificabile. Alfred Dreyfus era ebreo. A conti fatti l'appartenenza alla tanto odiata struttura sovranazionale ebraica fu un vantaggio strategico per il sistema giudicante che si avvalse dell'antisemitismo diffuso per approdare ad una accettata sentenza di colpevolezza. In gioco c'era il prestigio dell'esercito di fronte ad un popolo consapevole dell'instabilità politica nazionale. Nei confronti del fragile governo la risolutezza dell'organo deliberante assunse un precipuo scopo politico atto a svelare i rapporti di forza tra potere esecutivo e militare. L'esercito non stava a guardare, difendeva i confini nazionali e sarebbe tornato all'attacco per riconquistare quanto la Francia e i suoi politicanti avevano perduto. L'antisemitismo non era una novità dunque. La questione Dreyfus dette, tuttavia, l'opportunità all'ala più conservatrice delle Forze Armate di risvegliare il patriottismo che serviva ad alimentare le spinte di riconquista territoriale ai danni della Germania che aveva annesso al novello Reich l'Alsazia/Lorena con la guerra franco-prussiana del 1871. Gli ebrei, benché cittadini francesi non venivano considerati dai nazionalisti alla stregua dei cittadini di religione cristiana, per cui fu semplice fomentare l'odio nei confronti di un uomo reo di non essere cattolico.
Roman Polanski ha ricostruito il tanto chiaccherato Affaire Dreyfus che tra fine Ottocento ed inizio Novecento causò non pochi dissesti politici e scontri dialettici tra pensatori ed artisti. Meglio, partendo dalla condanna dell'ufficiale, Polanski si è cimentato in una certosina ricostruzione dei fatti successivi alla sentenza, che portarono il tenente colonnello Marie-Georges Picquart, diventato, nel frattempo, responsabile dei servizi segreti, a scoprire la verità celata dietro la condanna. Roman Polanski ha realizzato, senza ombra di dubbio, un'opera tecnicamente eccellente. In base al poco che ho letto mi è sembrato di ravvisare un'adesione storica alla vicenda piuttosto consistente nonostante la sceneggiatura tratta dal libro omonimo del romanziere inglese Robert Harris. Il regista si è nascosto dietro la macchina da presa limitando la tentazione di qualsivoglia sensazionalismo a cui avrebbe potuto aderire vista la posizione privilegiata di ebreo scampato alle persecuzioni naziste. Polanski, insomma, non ha ceduto alla tentazione di una rappresentazione voyeristica della storia. È rimasto in disparte adottando uno stile documentaristico che a tratti si sarebbe potuto liquidare di calcolata freddezza. Il regista si è concentrato sullo sviluppo dell'inchiesta ed in particolar modo sulla figura del colonnello Picquart. A contrario sono stati pochi i riferimenti alla cattività di Dreyfus nell'isola del Diavolo, il più duro dei quali rappresentato nell'adozione dei ferri da parte delle guardie carcerarie. Più che a suscitare una facile pietà nello spettatore il regista polacco ha voluto soffermarsi sulla trattazione delle cause che resero possibile il misfatto. Una decisione che ha tolto un po' di pathos ma ha reso l'opera di grande attualità. Polanski ha smascherato i giochi del potere, e tutte le passioni che da sempre inficiano la storia dell'uomo. Da ultimo ha scoperchiato una pentolaccia ribollente antigiudaismo in tutte le sfere del potere e del sapere. Gli ebrei non erano ben voluti dall'esercito per il loro senso di appartenenza al popolo d'Israele. L'esercito preferiva non avere ebrei nei propri ranghi non potendo essere certo se la fedeltà dei propri soldati fosse rivolta alla Repubblica di Francia piuttosto che alla "Nazione ebraica". C'erano tuttavia altre questioni che parlavano a sfavore degli ebrei come la ricchezza accumulata e il pregiudizio religioso che aumentavano il risentimento delle classi più povere. Polanski ha accennato a tutte questi fenomeni mettendo in bocca ad ogni attore della vicenda qualche frase pregiudizievole. Lo stesso Picquart, paradossalmente, era più interessato a ripristinare l'onore perduto dal corpo di appartenenza che discolpare Dreyfus che avrebbe, in un certo senso, preferito colpevole. Fu una coincidenza che i due obiettivi coincidessero. L'ultimo incontro tra i due uomini ha di fatto confermato l'impressione di un pregiudizio anti ebraico estremamente duro da estirpare.
Quanto alle vicende personali del regista non accoglierei le questioni sollevate da alcuni circa la posizione di Polanski di fronte alla giustizia americana che lo vedrebbe come una sorta di capro espiatorio nella bilancia della giustizia. Polanski come Dreyfus? Direi che il paragone è azzardato e tutto sommato poco calzante.
"L'ufficiale e la spia" è un film storico che riapre il dibattito intorno all'antigiudaismo in un periodo storico in cui l'Europa impazzita sta dando coraggio a nuovi zombie nazionalisti. Io credo che se di attualizzazione si deve parlare è giusto fermarsi qui. Quanto a Polanski, invece, celebrerei le capacità registiche che nel suo ultimo lavoro si riverberano in una perfetta ed essenziale messa in scena che già dal primo campo lunghissimo sulla piazza affollata di soldati dimostra il distacco emotivo e la professionalità nell'affrontare la materia. Tale distacco, capace di influenzare la percezione dell'osservatore, scricchiola di colpo davanti alla riproduzione degli ambienti idealiazziti dai colori vivaci della pittura impressionista che nelle mani di Polanski e di Pawel Edelman perde quei connotati di "joie de vivre" per farsi testimone dei toni grigi e desaturati dell'ottusità corrente. L'introduzione del personaggio di Pauline mi ha ricordato "Le déjeuner sur l'herbe" di Claude Monet (o di Eduard Manet se preferite) mentre l'incontro tra Picquart e Dervernine in una balera sembrava scaturire da una tela di Henri de Toulouse-Lautrec. La cerimonia in cui Dreyfus fu spogliato delle sue armi e delle sue mostrine ricalcava la copertina disegnata da Henri Meyer per Le Petit Journal.
"L'ufficiale e la spia" è un film, dunque, formalmente splendido nel virtuosismo scenografico che ha fatto rivivere un'epoca già fortemente impressa nelle tele dei grandi pittori. Inoltre ha anticipato alcune scottanti questioni nel rogo delle opere e nei vetri in frantumi delle vetrine. A proposito di artisti, Monet e Pissarro erano dreyfusiani mentre altri grandi pennelli come Degas, Cézanne e Renoir predicavano la colpevolezza dell'ebreo. Poco acume o più semplicemente molte tendenziose informazioni intorno al caso? Oggi le chiameremo fake news ma la sostanza è la stessa. I tribunali popolari sentenziano prima di quelli ufficiali e chi è oggetto di tali attenzioni non può che soccombere alla gogna mediatica. In tal senso Polanski un po' vittima lo è stato specie negli ultimi tempi, specie nell'era dell'informazione incontrollabile della rete. Quanto alla sua arte, passata la bufera che lo riguarda, verrà sicuramente ricordata per quella che è. In fondo nessuno mai eviterebbe di sostare davanti ad un Degas, un Cézanne o un Renoir in quanto antisemiti. Il fluire del tempo cancella la memoria della carne ed enfatizza il frutto dello spirito.
Charlie Chaplin Cinemas - Arzignano (VI)
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