Regia di Jean Eustache vedi scheda film
Voto 10/10 Geniale ma impegnativo. Jean Eustache raccoglie l’eredità della Nouvelle Vague per comporre un disincantato ritratto di un dandy parigino che non riesce a scegliere fra diverse opzioni sentimentali e risente in negativo del crollo degli ideali che avevano infiammato il Maggio sessantottino nella capitale francese. Alexandre ha circa trent’anni, non ha un lavoro e frequenta quotidianamente i bistrot di Saint-Germaine-des-prés dove si riunisce l’intelligentsia esistenzialista che fa capo a Sartre; all’inizio del film cerca di convincere Gilberte, una studentessa universitaria, a tornare con lui, ma senza successo; in seguito si barcamena in una relazione “di comodo” con Marie, proprietaria di una boutique che lo mantiene e si mostra piuttosto gelosa quando lui cerca distrazioni altrove, e incontra Veronica, un’infermiera di origine polacca molto disponibile sul piano sessuale, che sembra innamorarsi davvero di lui…
Per Eustache si tratta di un film che non potrebbe essere più autobiografico: l’attrice Françoise Lebrun che interpreta Veronica era una sua ex che si identifica nel personaggio di Gilberte; nel personaggio di Marie è adombrata Catherine Garnier che collaborò come costumista e mise a disposizione l’appartamento dove sono girate molte scene di interni, e che si suicidò poco dopo aver visto una proiezione privata del film, mentre nel personaggio di Veronica è rappresentata l’infermiera polacca Marinka Matuszewski, che fa una piccola comparsata. Si tratta di un gioco fra realtà e finzione molto elaborato che ne fa una testimonianza autobiografica impressionante; ma ciò che colpisce del film è il suo stile davvero “peculiare”: molte scene sono girate in tempo reale, con lunghe e articolate conversazioni su argomenti di carattere morale, sociale o filosofico. Si tratta spesso di un “bavardage” su argomenti che non sono legati alla trama del film e che può apparire estenuante o fine a se stesso allo spettatore meno paziente; tuttavia, “La maman et la putain” non è un film che rispetta le regole della drammaturgia classica, ma anzi Eustache porta alle estreme conseguenze alcune acquisizioni formali della Nouvelle Vague, cercando di costruire un cinema diverso da tutti gli altri, perfino dal “cinema di parola” di Rohmer, per certi versi affine. E’ una testimonianza acuta, per molti versi dolorosa della confusione e del malessere esistenziale di tutta una generazione; è un’opera che si interroga sul ruolo della donna nei confronti di un maschio insicuro e sui limiti della coppia che si allarga in un “ménage à trois” che sembra ricordare quello di “Jules e Jim”. Le conclusioni a cui arrivano i personaggi del film sono per certi versi singolarmente “puritane”: ad esempio nel discorso di Alexandre contro l’aborto, problematica di forte attualità negli anni Settanta, oppure nel toccante monologo finale di Veronica in cui la ragazza ribadisce che “in questo mondo non esistono le puttane” e che “per fare sesso bisogna amare l’altro in una coppia e desiderare di avere un bambino… tutto il resto è spazzatura”. Straordinaria l’aderenza ai rispettivi personaggi di Jean-Pierre Léaud e Bernadette Lafont, entrambi icone della Nouvelle Vague che non poterono improvvisare e dovettero rispettare alla lettera i dialoghi straripanti e letterari di Eustache, e buona anche la prova della semi-esordiente Françoise Lebrun. Eustache utilizza lunghi piani fissi, costruisce le immagini come tanti “tableaux” dove la figura umana ha sempre un rilevo centrale, spesso ripresa in primo o primissimo piano, dilata i tempi fino all’inverosimile con una regia debitrice della Nouvelle Vague, ma anche di John Cassavetes (il film più vicino a questo è “Volti” del 1968). Cinema elitario, aristocratico, difficile, estenuante e perfino respingente, ma comunque cinema geniale. Ultimo capolavoro della Nouvelle Vague.
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