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La maman et la putain

Regia di Jean Eustache vedi scheda film

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La recensione su La maman et la putain

di hupp2000
10 stelle

Lo considero un film importantissimo e necessariamente molto lungo. E’ il  primo bilancio quasi a caldo della rivoluzione psicologica e culturale (non politica) che aveva visto come protagonisti i giovani del ’68 in Europa e negli Stati Uniti. E’ un sublime canto del cigno della “Nouvelle Vague”, una gloriosa conclusione quasi fuori tempo massimo. E’ forse la più grande interpretazione di un attore feticcio del movimento: Jean-Pierre Léaud. Parigi, 1973. L’annunciata rivoluzione politica del Maggio ’68 non c’è stata. Nel giro di poche settimane, gli operai erano tornati nelle fabbriche, i giovani avevano ripreso a studiare e a lavorare, oppure ad oziare, come il protagonista Alexandre. Alexandre parla molto, si atteggia da intellettuale senza arte né parte, legge ovviamente “Le Monde”, beve,  fuma come un turco, è colto, vive più di notte che di giorno, frequenta assiduamente “Les Deux Magots” e il “Café Flore” perché vi si incontra la crema della sinistra parigina, ha una relazione con due donne, in un contesto libertario tutto sessantottesco. Dietro questa apparente scioltezza e facilità di vivere si nasconde un senso di fallimento, una malinconia suggerita e mai mostrata, l’assenza di progetti per il futuro a dispetto delle più brillanti interpretazioni e visioni della realtà. Il piccolo appartamento in cui vive sembra la fotocopia di quello in cui  abitavo io a Roma in quegli anni. Lo stesso materasso rigorosamente matrimoniale a terra, il giradischi, i libri e i giornali, le bottiglie e le “Gauloises”, la stessa vita sessuale trasgressiva ma distratta. Ultimo capitolo della “Nouvelle Vague”, il film ne ribadisce alcuni cardini: interni molto intimi, macchina da presa fissa ed esterni catturati alla realtà, dialoghi che non devono sembrare “recitati” (Eric Rohmer insegna), colonna sonora affidata unicamente ai 33 giri che vengono posati sul piatto, rigetto della spettacolarizzazione. Sembra quasi una summa, un indispensabile manuale a futura memoria. Vero e proprio demiurgo di questa meritoria operazione è Jean-Pierre Léaud, capace di far volare 208’ di pellicola grazie ad una recitazione genialmente logorroica e non meno coinvolgente. Il personaggio è interpretato con quel suo stile personalissimo, riconoscibile in tutta la sua filmografia. Si potrebbe dire che Antoine Doinel si ritrova in ogni sua prestazione, fino ai giorni nostri. Per qualcuno è un limite, una mancanza di versatilità, per altri è segno di unicità, quasi un mrchio di fabbrica. Probabilmente, François Truffaut esagerava nel definire Jean-Pierre Léaud “il più grande attore del XX secolo”: era come chiedere all’oste se il vino è buono... Resta il fatto che in questo film è superlativo, parla con gli occhi, ha una gestualità che cattura lo sguardo, un eloquio degno del più alto teatro francese. Intorno a lui, si avvicendano le donne, il classico “miglior amico” e la fauna di Saint-Germain des Prés. L’intero cast è impeccabbile, ma un rilievo particolare va dato a Bernadette Lafont (di nuovoTruffaut...) nel ruolo di Marie, amante più anziana di Alexandre (“La Maman”). Per ragioni anagrafiche, è la “non-sessantottina”, anche se perfettamente integrata nel vorticoso cambiamento dei rapporti tra maschi e femmine verificatosi in quegli anni. E’ sarcastica, sicura di sé, lascia che Alexandre si porti a letto Veronika (“La Putain”) in casa sua. Per quanto consapevole della sua gelosia, si adegua forse volentieri al triangolo, anche sessuale. Più che scelte, erano situazioni in cui ci si ritrovava quasi per distrazione. C’è molto sesso, poco erotismo e tanto realismo. E’ vero: all’epoca, non tutte le ragazze si radevano le ascelle. Esteticamente e figurativamente, avevano tre... (chiedo scusa per la battuta di dubbio gusto). Bernadette Lafont mi ha addirittura ricordato Silvana Mangano, in “Riso Amaro” di Giuseppe De Santis (1948). Singolare destino quello di Jean Eustache, morto suicida nel 1981 ed esponente della “Nouvelle Vague”, intimo amico e collaboratore dei soliti giganti (Truffaut, Godard, Rohmer, Varda, Chabrol, Rivette, ecc.), conosciuto per questa sola opera che vale un carriera. Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1973, suscitò reazioni contrastanti ed è comprensibile. Se non ci si riesce ad immedesimare nell’atmosfera dell’epoca, nella ricostruzione lenta e fedele di un ambiente mostrato in precedenza solo attraverso “clichés”, se non si conoscono i dubbi e le incertezze di una generazione ancora non adulta, ancora esitante ma ormai delusa, il film può apparire ozioso come il suo protagonista. Pazienza. Per me resta una classica chicca. Nel realizzare “The Dreamers” nel 2003, Bernardo Bertolucci non può non aver tenuto conto di questo prezioso “documento”.

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