Regia di Jean Eustache vedi scheda film
Alexandre (Jean-Pierre Lèaud) è un dandy parigino che passa il suo tempo al "Deux Magots" di Saint Germain de Près, legge Proust e sorseggia whiski. Vive nell'appartamento di Marie (Bernadette Lafont), una donna più grande di lui a cui è molto legato affettivamente. E' ancora innamorato di Gilberte (Isabelle Weingarten), una studentessa che lo lascia per istaurare con un altro un rapporto più solido, quando si imbatte in Veronika (Francoise Labrun), un'infermiera dai costumi sessuali assai facili di cui rimane subito attratto. La fissità della loro relazione infastidisce Marie e la sua coabitazione con Alexandre ingelosisce gradualmente Veronika, che per la prima volta sente di essersi innamorata di un uomo.
"La maman et la putain" (Gran premio della giuria a Cannes) è da molti considerato uno dei film più importanti di tutto il cinema francese degli anni settanta, quello che fa conoscere al grande pubblico il sensibile talento di Jean Eustasche (morto suicida nel 1981), un autore con la vocazione da scrittore che quasi per caso si ritrovò nel mondo del cinema ("Faccio cinema perchè non sono capace di scivere romanzi", disse di se). In effetti, questo magnifico film ha un impronta tipicamente letteraria, tra la lentezza esasperante e la rigorosa sperimentazione linguistica. Girato perlopiù in interni, si regge tutto su lunghi e interminabili dialoghi (almeno due i monologhi da antologia), che vanno dal pronunciamento dei più banali luoghi comuni a osservazioni profonde sulla condizione esistenziale dell'uomo moderno. La vita scorre insieme all'alcol e al fumo delle sigarette, aderisce al quotidiano annullando ogni valore spazio-temporale ai contenuti che la sorreggono. Si passa dalla camera da letto al bar e dal bar alla camera da letto, un'ambientazione claustrofobica letteralmente inondata da un flusso ininterrotto di parole, che rimbalzano in ogni dove depositando impressioni sparse ed emozioni indistinte. Emerge nell'aria il sapore acre della disillusione e un angosciosa sensanzione di smarrimento, la vacuità veicola concetti e la transitorietà dei sentimenti è figlia della fuga dalla storia. Trovo sia vero che questo film rappresenti il "tipico sasso nello stagno", la spia rossa di un malessere generazionale che andava facendosi sempre più generale, che segnava per molti giovani la fine delle speranze "contestatarie" e l'inizio di un periodo di totale disimpegno (le pesanti invettive lanciate da Alexandre contro "La classe operaia va in paradiso" di Elio Petri e "l'avvinazzato" Jean Paul Sartre sono in tal senso emblematiche). La grandezza del film sta nel far emergere questo clima "decadente" tra le pieghe di particolari stati emozionali, di rappresentare il nulla facencocene gradualmente percepire il senso. I suoi personaggi si delineano compiutamente con lo scorrere della storia, come se le oltre tre ore di durata del film rappresentassero per ognuno un percorso esistenziale da portare avanti fino alle estreme conclusioni, mostrandosi nudi alla meta. Giungono a una tale maturazione emotiva da indurre chi guarda a familiarizzare con loro, a identificare le situazioni rappresentate come situazioni tipo e a riconoscerne la ragionevole emblematicità contingente. Eustache usa i corpi per appagare istinti e le parole per incunearsi nei dedali misteriosi del sentimento amoroso, due linguaggi che viaggiano su vie parallele, che danno e tolgono senso alla perdita di coordinate in atto fino al momento imprescindibile delle scelte, quando i due percorsi si incrociano e bisogna cedere il passo alle voci di dentro se non si vuol soccombere sotto il peso di una perenne indeterminatezza. Un film davvero eccezionale, sulla vita, sulla politica e sulla forza lenitrice dell'amore.
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