Regia di Ken Loach vedi scheda film
O: se potrà andare peggio, lo farà. La sfiga proletaria da undici decimi per occhio continua a carburare il cinema di Loach. Ripetutamente. Stancamente. Se il furgone glielo ruberanno, o ci si schianterà, o ci investirà una vecchia, magari una di quelle accudite dalla moglie, l’ultima badante europea occidentale rimasta al mondo, è la curiosità che mi ha tenuto sveglio fino alla fine. Previsioni disattese, ebbene sì, ma la gratuità del pestaggio con innaffio piscioso, che lapida infine la storia, fa tornare i conti. Fin lì un assortimento di malesorti ordinarie, costituito sostanzialmente dalla figura del principale, caricatura di un capo lager nazista, ennesima, anacronistica, pietosa, raffigurazione di nostro demonio imprenditoria nel vangelo secondo Ken, e di un figlio aspirante graffittaro ed esasperante stronzetto. Si respira un po’ con la figlia minore, collante decisivo nella tenuta del sistema famiglia, un’ossigenante boccata di ottimismo nell’apnea della malora generale. Ma dura poco.
Loach e l’inseparabile Laverty decidono di raccontare ancora una volta la storia del loro povero cristo ideale, come al solito quarantaerottenne, britannico puro, a volte alcoolizzato, più spesso semplicemente incapace fallito, lamentoso, con tendenza ad autoassolversi, con la sfortuna come alibi, il tifo calcistico tra i suoi più alti valori, smanioso di borghesia, invariabilmente mortificato, sconciato, annientato da quella stessa sponda sociale di cui vorrebbe disperatamente far parte.
“Raining Stones” era, e rimane, un gran bel film, a scanso di equivoci, ma L&L continuano a cercare di rifarlo da quasi trent’anni, apparentemente incapaci, più probabilmente non interessati, ad aggiornare al ventennio del nuovo secolo profili, situazioni ed etnie della questione sociale.
Vecchiume stantio. Un cinema ormai fiacco, superfluo, infecondo.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta