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Sorry We Missed You

Regia di Ken Loach vedi scheda film

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La recensione su Sorry We Missed You

di Peppe Comune
8 stelle

Ricky (Kris Hitchen) ed Abbie (Dabbie Honeywood) sono una coppia di Newcastle felicemente sposata Hanno due figli, il sedicenne Sebastian (Rhys Stone) e l’undicenne Liza (Katie Proctor). Cercano entrambi di non lasciarsi travolgere dalla crisi economica e di vivere dignitosamente nonostante le mille difficoltà. Abbie fa la badante a domicilio per anziani e malati e si muove tutto il giorno da un punto all’altro della città. Ricky, invece, ha perso il suo vecchio impiego e vede una nuova possibilità lavorativa come corriere freelance per una grossa ditta di consegne. Ma per farlo deve comprarsi un furgone tutto suo, per cullare l’idea di lavorare in autonomia e gestire il tempo come meglio crede. Così si decide di vendere l’auto di Abbie, che sarà costretta a spostarsi con i mezzi pubblici. Le mutate condizioni lavorative mettono a dura prova la serenità familiare. Soprattutto Sebastian ne subisce le conseguenze, diventando il simbolo di un malessere che riguarda l’intera famiglia.   

 

Kris Hitchen, Katie Proctor

Sorry We Missed You (2019): Kris Hitchen, Katie Proctor

 

“Sorry We Missed You” di Ken Loach è un film dalla calibrata lucidità analitica, sulle nuove forme di sfruttamento sociale e sul lavoro sfruttato come forma ormai regolarizzata di pratica illiberale. Ci tengo subito a dire che è sempre commovente constatare come ogni volta “Ken il rosso” ci parla delle cose essenziali che riguardano la vita delle persone, di come analizza i problemi reali pur trasfigurandoli attraverso l’occhio parziale ed indagatore insieme della macchina da presa.

Nel mondo contemporaneo, letteralmente dominato dal modello liberista, piuttosto che rappresentare un momento che nobilita la vita delle persone dando loro gli strumenti idonei per godere felicemente del tempo libero, il lavoro si è trasformato in un elemento che gli inibisce ogni slancio di autentica libertà d’azione. Tutto deve essere numero perché ogni cosa deve corrispondere ad imposti criteri di efficienza ; tutto deve essere reso contabilizzabile perché ciascun elemento deve poter entrare in conflitto con ogni altra parte dell’insieme. Solo dalla competizione selvaggia è possibile far emergere gli indicatori che alzano la posta in gioco : tra chi ricatta in ragione della sua posizione di forza e chi è ricattabile perché non ha nella sua prossimità un’alternativa plausibile. Solo chi si adatta alla legge della Jungla può riuscire a giocarsi le sue carte nella selezione “innaturale” del più forte. Chi non combatte è destinato a soccombere : prima come uomo dotato di dignità, poi come lavoratore portatore di diritti.

Ken Loach è rimasto uno dei pochi cineasti a conservare una spiccata sensibilità civile, che gli serve per portare su schermo la condizione di sfruttamento prodotta dalla coeva organizzazione del lavoro. E lo fa con piglio certamente militante, ma mai ricattatorio, col cuore proteso verso la parte debole della contesa sociale, ma senza perdere la lucidità analitica di chi cerca di registrare oggettivamente l’andamento sistemico dei fatti. Perché anche se si è indirizzati dalla finzione cinematografica, ad essere rappresentati sono spaccati di vita colti nella loro veritiera attendibilità. Ricky ed Abbie sono alienati da un lavoro che ruba ad entrambi più tempo del necessario, disumanizzati dalla necessità di praticare ritmi lavorativi che cozzano col desiderio minimo di serenità. I coniugi cambiano loro malgrado atteggiamento, poco alla volta e senza mai accorgersene per davvero, sia rispetto all’equilibrio familiare, perché non riescono a dedicargli il tempo adeguato, sia guardando alle rispettive esistenze, totalmente assorbite dal lavoro che fanno. A farne le spese è soprattutto Sebastian, perché se la piccola Liza si rende complice delle “mutilate” attenzioni filiali, il ragazzo le sfrutta malamente dando sfogo ad un maldestro spirito libertario. Il suo disordine emotivo si fa specchio fedele di quella perdita evidente della serenità familiare, indotta dal modo in cui le leggi dell’economia liberista hanno trasformato i rapporti tra le persone sui luoghi di lavoro. Sebastian rappresenta la spia rossa di un cambiamento sociale che ha rinchiuso i suoi genitori in una prigione involontaria.

Ken Loach ci ricorda che la vita delle persone è da sempre alimentata da sentimenti e da affetti che andrebbero assecondati e coltivati, che il lavoro reso più flessibile dall’uso della tecnica non può sacrificare le relazioni umane in nome di un’efficienza delle prestazioni da perseguire ad ogni costo. L’autore inglese ha il pregio antiretorico di mostrare fatti attendibili e di invitare chi guarda a farsi un’idea propria sullo stato delle cose. Come quando mostra una delle anziane signore assistite da Abbie chiedersi come è possibile “lavorare ininterrottamente dalle 7:30 fin oltre le 9 di sera”. La scena stacca senza ricevere risposta. Forse perché la risposta non la può dare chi è troppo impegnata a lavorare. Forse al cineasta basta mostrare la differenza tra chi possiede ancora la facoltà di domandarsi indignata come sia possibile tollerare tali ingiustizie, e chi è necessitato dall’ordine degli eventi a dover assecondare il ritmo di abitudini regressive. Lo stesso vale per Ricky, che inizialmente crede di lavorare in autonomia col suo furgone, ma poi scopre di essere perennemente sotto il controllo di un lavoro che subordina il bisogno fisiologico di farsi una pisciata ai feedback positivi degli occasionali clienti. L’uomo e il suo furgone porta pacchi devono sempre essere a portata di controllo, perché l’acquirente consumatore deve sempre poter sapere entro quanto gli sarà fatta la consegna, conoscere in ogni momento la tracciabilità della sua merce. Per poi giudicare la qualità dell’intero servizio. Ecco, dietro questa legittima richiesta di efficienza e velocità si celano ritmi di lavoro massacranti. È un’arena dove tutti si è partecipi delle stesse dinamiche sociali, ma è chiaro che il punto di vista di chi si limita a vedere nella tracciabilità in tempo reale di un pacco ordinato un segno di indubbia civilizzazione sociale, è nettamente diverso da chi ne subisce l’incivile condizione di lavoratore sfruttato. Ken Loach ci presenta l’intero quadro, lasciandoci anche vergognare un poco per come abbiamo soffocato il senso d’indignazione nelle nostre vite da cittadini passivi.

Evviva Ken il rosso, per come tiene gli occhi aperti sulle cose del mondo e per come ci urla ogni volta in faccia che prima di tutto siamo esseri umani. Sempre ottimo Cinema civile con lui.

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