Regia di Ken Loach vedi scheda film
Il ritorno in sala di Ken Loach è l'ennesimo, durissimo viaggio nella vita di una famiglia proletaria britannica, la tragedia comune della working class contemporanea apparentemente incapace di reagire ai continui soprusi subiti nel mondo del lavoro e al di fuori di esso.
Dopo il magnifico e commovente "Io, Daniel Blake", Ken Loach e il fidato sceneggiatore Paul Laverty tornano ancora sul "luogo del delitto", spostando l'obiettivo dalle inefficienze e dalla disumanità della burocrazia statale al mondo del lavoro privato e in particolare dei corrieri, mantenendo tuttavia il focus su un sistema che stritola i più deboli togliendo loro non solo ogni speranza di vita ma addirittura la loro dignità di esseri umani. In mezzo a un clima di indifferenza generale, in cui soprattutto gli appartenenti alla middle-class e i piccolo-borghesi si permettono di guardare con disprezzo alle classi meno agiate dall'alto della loro mediocrità umana e spirituale, in un cinema in cui registi come Woody Allen, Noah Baumbach e sodali ci mostrano solo le disavventure superficiali e prive di significato degli intellettuali snob e dei figli dei ricchi, un tipo come Ken Loach è quanto mai da tenere in alta considerazione, uno dei pochi a proporre un cinema realistico e ancorato alla (spiacevole) realtà ma infinitamente più genuino ed emozionante dell'onanismo intellettualoide borghese di stampo americano. Come al solito ci troviamo dinanzi a una messa in scena scarna e quanto mai essenziale, alla quasi assenza di una colonna sonora e all'uso di inquadrature strette e soffocanti che rendono in maniera genuina il disagio emotivo ma anche fisico dei protagonisti.
Il film segue le vicissitudini di Ricky Turner (Kris Hitchen), corriere per una ditta in franchising, della moglie Abbie (Debbie Honeywood), assistente sociale, e dei due figli della coppia, Sebastian (Rhys Stone) e Liza Jane (Katie Proctor). Oberati da una mole di lavoro assurda, praticamente due schiavi sottopagati, e sommersi dai debiti, Ricky e Abbie tirano avanti sempre più stanchi e disperati per poter garantire un tetto sopra la testa e un futuro migliore del loro ai due figli, la studiosa e (nonostante l'età) coscienziosa Liza e il ribelle nonchè problematico Seb. La loro continua assenza da casa, i ritmi di lavoro disumani e l'impossibilità di seguire da vicino i ragazzi (soprattutto Seb) porteranno lentamente al nascere e al propagarsi di tensioni in seno alla famiglia, le quali esploderanno in seguito all'aggravarsi della situazione scolastica del giovane e a un pestaggio subito da Ricky durante le ore di lavoro, fino a giungere a un finale spietato e amaro di fronte al quale è impossibile rimanere indifferenti (a meno che non apparteniate alla categoria dei "cazzomenne, io c'ho i soldi, andiamo a comandare" descritti in precedenza).
Se in "Io, Daniel Blake", nonostante l'epilogo ancora più tragico, c'era un piccolo spazio per la speranza anche in virtù del carattere mai domo del protagonista Daniel e sovente ci si scopriva commossi di fronte alle miserie affrontate da Daniel e dall'amica Katie, qui Ken Loach non riesce a farci empatizzare a tal punto con i personaggi e il livello di indignazione raggiunto è minore, ciò nonostante il film è un altro pugno sferrato nella bocca dello stomaco dello spettatore, in modo da svegliare le coscienze sempre più assopite del pubblico. Senza svolazzi di regia e di sceneggiatura, ci viene mostrato come lo schiavismo non sia affatto scomparso ma abbia cambiato nome e forma, rimanendo tuttavia legale e addirittura accettato socialmente. Non mancano accuse al cinismo e alla disumanità di certi superiori come il capoufficio di Ricky, un autentico bastardo conciliante a parole e assolutamente schifoso e inaccettabile nei fatti, un personaggetto a cui si augurerebbe volentieri una morte lenta e dolorosa, ma il dito è puntato in primis contro un sistema lavorativo ed economico che se ne frega bellamente delle esigenze di un'umanità sempre più succube e sfruttata, in cui nessuno si ribella e anzi si lotta disperatamente con altri poveracci per le briciole. Invece di continuare a guardare allo schifo che è diventato il modello di sviluppo anglosassone, forse sarebbe ora di prendere ad esempio il sistema scandinavo che si è dimostrato nei fatti molto più efficace nel garantire una qualità della vita e delle relazioni sociali maggiore e una crescita economica sostenibile e utile all'individuo anzichè a pochi stronzi rapaci. Il timore è che, morto Ken Loach, non rimanga davvero più nessuno ad alzare la voce per denunciare la merda del capitalismo e dei suoi stronzeggianti difensori, un modello foraggiato da intellettuali completamente asserviti al potere economico e da gente senza palle e senza amor proprio, incapace di lottare per i propri diritti e per un mondo più giusto ed egualitario senza per forza dover essere considerati dei comunisti.
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