Regia di Carlo Mirabella-Davis vedi scheda film
Tentativo maldestro di dramma psicologico femminista, scritto in maniera talmente grossolana da risultare irritante, tra situazioni inverosimili, dialoghi penosi e caratterizzazioni lacunose.
In una splenda casa arroccata in mezzo al nulla con vista mozzafiato sulla sottostante vallata di un fiume, Hunter (Haley Bennett ) conduce un’esistenza dorata ma vuota, oziando tutto il giorno, mentre il marito, rampollo di una facoltosa famiglia, si reca al lavorodi dirigente nell’impresa del padre. Sarà forse il tedio di una vita tanto privilegiata quanto priva di scopo a spingere la donna ad ingoiare piccoli oggetti?Cominciando da un innocuo cubetto di ghiaccio per passare ad unapallina di vetro per proseguire con una più pericolosa puntina e soprammobili vari, mettendo così a rischio la sua salute, nonostante abbia da poco scoperto di essere incinta, per un brivido di trasgressiva e autodistruttiva indipendenza. Dalla psicoterapia che i familiari la costringono a seguire, quando un'ecografia rivela il suo segreto, emergono traumi del passato, per il fatto di essere stata concepita in seguito alla stupro della madre da parte di un estraneo.
Quello di Carlo Mirabella-Davis è un tentativo maldestro di dramma psicologico femminista sull’infelicità che erompe da sotto la superficie di un matrimonio apparentemente perfetto.
La caratterizzazionepsicologica della protagonista e del suo disturbo mi è sembratacarente e confusa:all'inizio ci fa credere che il suomalessere sia da attribuire alla condizione oppressiva di cui sono responsabili marito e suoceri, poi all'improvviso salta fuori la storia dello stupratore della madre, episodio che rimane isolato in un passato di Hunter di cui sappiamo troppo poco.
Anche altri personaggi hanno caratterizzazioni zoppicanti, a partire dal marito: una sorta di bambolotto Ken, legnoso quanto bello, dapprima protettivo per poi diventare fin troppo improvvisamente ostile e vendicativo; poco verosimile che abbia raccontato della bizzarra abitudine sul posto di lavoro per cercare solidarietà dai dipendenti. Peggio ancora il siriano messo dai suoceri a farle da badante per controllarla, che ad un certo punto sparisce di scena per poi improvvisamente riapparire per aiutarla a scappare di casa, scelta dell’uomo dettata da motivazioni che appaiono incomprensibili. E vogliamo parlare del collega del marito che ci prova e chiede un abbraccio alla moglie del capo , in casa sua, mentre lui è a due passi di distanza (altro personaggio che fa una fugace quanto insensata apparizione)?
Come altri registi alle prese con drammi di donne giunte al limite del crollo esistenziale, Carlo Mirabella-Davis cerca di trasmettere un messaggio femminista, di necessità di ribellione ai ruoli imposti dalla società: il problema è che lo fa in maniera talmente grossolana da risultare irritante. Tutta la pellicola è disseminata di rozzi tentativi di scrittura: ad esempio, durante una cena il suocero la interrompe bruscamente mentre sta parlando per cambiare discorso, a rappresentare la scarsa considerazione in cui Hunter è tenuta, ma il comportamento dell’uomo appare troppo ostile e maleducato per risultare credibile. Abbastanza poco verosimile è, in generale, il mondo maschilista e bigotto, preso di peso dagli anni 50, in cui la protagonista si troverebbe rinchiusa in pieno ventunesimo secolo, senza riuscire (ma nemmeno tentare) di usare le sue risorse di classe per rompere l’isolamento (perché Hunter non ha amici né relazioni extra-familiari?). Man mano che il film procede verso l'epilogo, le cose peggiorano, con l’imbarazzante il dialogo con lo stupratore della madre, che arriva subito prima di un disgustoso finale abortivo in un bagno pubblico che vorrebbe essere liberatorio, ma lascia ben più che perplessi.
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