Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Probabilmente la sequenza maggiormente significativa di “Kvinnors väntan” è proprio una di quella passate totalmente inosservate al vaglio dei critici. Eppure il fugace ma toccante momento troppo presto troncato da uno stacco assassino, in cui la dolcissima Marta, interpretata da Maj-Britt Nilsson, si volge in direzione di un fuori campo ad abbracciare il frutto delle sue viscere appena generato, merita d'essere sicuramente affidato alla memoria futura. Dallo sguardo affettuoso di lei, ricolmo di una tenerezza che soltanto una madre può offrire (e l’immedesimazione cinematografica è pressoché perfetta), si comprende chiaramente che non esiste gioia più grande al mondo di quella che si prova nel dare alla luce una nuova vita. Ed ancora una volta la dedizione bergmaniana nei confronti del pianeta donna, croce e delizia della propria esistenza, non tarda a raggiungere il suo apice in questa storia agrodolce di autoanalisi femminile in cui le dinamiche affettive e familiari sono esaminate da un punto di vista sempre più prossimo ad una sorta di latente frustrazione, con le presenze maschili relegate a ruoli subalterni e ricolmi d’ambiguità, in una prima prova generale propedeutica a quei “Sorrisi” in cui la cecità “sessofortista” si spingerà ad innalzare l’immoralità a pura etica utilitaristica e le cui atmosfere più distese sono preannunciate dall’episodio finale di “Donne in attesa” dove una chiave registica drammatica iniziale finisce per sfociare in toni di commedia.
E scrive a tale proposito l’autore:”Per la prima volta udii il pubblico ridere per qualcosa che avevo fatto. Eva e Gunnar erano esperti commedianti e conoscevano con precisione l’arte di essere taglienti. Che quel piccolo esercizio di tecnica e di estetica i uno spazio ristretto si sia trasformato in una cosa divertente, è soltanto merito loro.”
In una narrazione resa per singole testimonianze e gestita in prevalenza tramite riprese con macchina fissa spicca come sempre la particolare predilezione del regista nei confronti degli specchi, intesi nel caso presente come mezzi che rimandano agli occhi dello spettatore scene di seduzione intraviste come di riflesso, quasi per attenuare la loro portata trasgressiva nel caso di Anita Bjork e l’eccessiva carica di sensualità nel caso di una Maj-Britt Nilsson che a tratti evoca nella nostra mente l’altrettanto significativa Irene Jacob kieslowskiana non tanto per la somiglianza fisica quanto per il modo analogo di offrirsi alla macchina da presa. Significative a tale proposito sono le analogie comportamentali tra le sequenze della seduzione silenziosa subita da Marta e taluni aspetti della “Doppia vita di Veronica”. Ed ancora una volta gli specchi ci mostrano il vero volto dell’essere, quello spregiudicato, disinibito, votato alla soddisfazione dei sensi, ma non privo di una buona dose di cinismo e di una certa fragilità interiore. Specchi dallo sguardo impietoso e perplesso, testimoni di passioni (pre)destinate a segnare il passo, votate a disincantati compromessi ed aggiustamenti di comodo, muti contemplatori di intrecci di vite vincolate da una successione di condizionamenti che alla lunga ne alterano il rapporto guidandole per mano alla “tomba dell’amore”.
Ad ogni suo nuovo film Bergman è dunque solito ridisegnare i percorsi emotivi dell’esistenza, sfiorando le corde dei sentimenti umani più contrastanti e tratteggiando alla perfezione le varie psicologie dei suoi personaggi, non ancora totalmente pervasi da quel male di vivere che in futuro li porterà ad un vero e proprio stravolgimento delle proprie sensazioni. E pur dispensando talvolta alle sue donne in attesa profluvi di amarezze e “sussurri e grida” da agonie in sala parto che fanno da preludio a “Nara livet” (Alle soglie della vita), non manca mai di accarezzarle affettuosamente col soffio della sua arte in rapida ascesa, assistendole amorevolmente nel loro viaggio di maturazione attraverso un salutare bagno di disillusione.
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