Regia di Jonas Alexander Arnby vedi scheda film
Sul principio di una riorganizzazione sinaptica che corrisponde allo smarrimento progressivo della propria personalità, si inserisce un discorso sul genere che gioca con l'insistito dualismo di una detection in cui l'ipotesi di lavoro del classico thriller assicurativo diventa essa stessa la struttura narrativa con cui prende forma la realtà.
Detective assicurativo con una relazione stabile ed un grave problema di salute è alle prese con lo strano suicidio assistito del marito della cliente che deve liquidare. Le indagini lo porteranno ad una isolata struttura sperduta tra i monti dove si fa ricoverare. Quello che scopre però, ha molto più a che fare con la sua personale crisi esistenziale e con inquietanti disturbi della percezione che non riesce a spiegare.
Strane strategie cognitive
Nel solco del suo precedente horror genealogico, in cui la vera identità della protagonista era celata da una giustificata reticenza familiare, il danese Jonas Alexander Arnby rincara la dose con questo ambizioso thriller esistenziale che si gioca tutto sulle ambiguità della messa in scena e sull'inesorabile slittamento percettivo di un protagonista alle prese con una continua ridefinizione del sé. Sul principio ispiratore di una riorganizzazione sinaptica che corrisponde da un lato allo smarrimento progressivo della propria personalità costretta al quotidiano confronto con lo specchio e con una App di riabilitazione cognitiva e dall'altro alla caleidoscopica trasfigurazione di una realtà simulata, nei suoi disperati e reiterati tentativi di interpretazione, si inserisce un discorso sul genere che gioca con l'insistito dualismo di una detection in cui l'ipotesi di lavoro del classico thriller assicurativo diventa essa stessa la struttura narrativa con cui prende forma la realtà: un gioco di scatole cinesi in cui il protagonista si ficca suo malgrado e che rappresenta una temeraria rivisitazione delle contorsioni ontologiche alla David Lynch. Come dire che se uno è o finisce per diventare il proprio mestiere, quando lo smarrimento dei sensi prende il sopravvento l'unico modo di intervenire (l'exit plan dell'ambivalente ma suggestiva titolazione internazionale) è proprio quello di assecondare uno scenario fatto a immagine e somiglianza di consolidate abitudini professionali; tra viaggi di lavoro sotto copertura, inveterati rituali di corteggiamento, loschi traffici di spoglie umane (Coma), ultracorpi a forma di baccelloni giganti e chi più ne ha più ne metta, fino al lucido delirio della consapevolezza finale di una condizione patologica che si scopre in grado di accettare la proteiforme natura delle proiezioni fantastiche della propria mente 'malata'. Il riferimento più colto è sicuramente l'astrazione simbolica e metanarrativa del Moetsukita chizu di Hiroshi Teshigahara che col pretesto del lavoro su commissione costringe ad un itinerario che riporta il protagonista al cuore angoscioso della propria condizione frammentata, ma ancora più sottilmente richeggia il Ningen jôhatsu di Shôhei Imamura, in cui la detection (e con essa l'intera struttura filmica, anche se là era resa più cogente dal ricorso allo sperimentalismo documentario) è solo il pretesto per una continua ridefinizione del concetto di realtà. Non aiutano certo, se non alla comprensione almeno all'apprezzamento del film, una certa piattezza nella messa in scena (riabilitata da alcuni 'guizzi di vera arte' come ha detto qualcuno), l'inevitale ingarbugliamento del registro e un personaggio baffuto e anonimo che ha nell'inespressività del suo interprete la sua più memorabile dote di protagonista.
Presentato al Sitges - Catalonian International Film Festival 2019 è uscito brevemente nelle sale americane e distribuito prevalentemente sulle piattaforme di video on demand.
***1/2 di incoraggiamento...aspettando il prossimo We Watched the Sun Disappear
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