Regia di Rodrigo Sorogoyen vedi scheda film
Perché un figlio è un figlio, anche se non ti appartiene…
Elena è pazza. Vaga tutte le mattine su una vasta spiaggia francese alla ricerca di un volto. La gente la guarda con aria di sospetto, difficilmente le si avvicina o le rivolge la parola. Rimane la donna che vive da sola tutto l’anno, ha un fidanzato che sporadicamente le fa visita e lavora come cameriera in un ristorante aperto appositamente per l’estate. Ma non per Jean, adolescente che molti suoi coetanei si allena all’alba in spiaggia. Capelli ricci e biondi, sguardo angelico e muso imbronciato, Jean sa che dietro la facciata di Elena si nasconde dolore e sofferenza. È consapevole di come celi una maternità negata o, meglio, rubata da un destino beffardo e ineluttabile. Quello stesso destino che lo spettatore vede nei primi quindici minuti di Madre, titolo con cui Rodrigo Sorogoyen prosegue le vicende avviate con l’omonimo cortometraggio del 2017.
Elena era una madre come tante, si trovava in casa e sapeva che il figlioletto Ivan aveva lasciato la Spagna per andare in vacanza con il padre su una spiaggia francese. Niente di anomalo o fuori dal comune se non fosse per l’incubo che da lì a poco la donna avrebbe vissuto: al pari di una lenta ma lancinante agonia, una telefonata di Ivan l’avvertiva di essere rimasto da solo in un posto che non conosceva, della presenza di un estraneo, di un inseguimento e di una fine mai nota. Da allora in poi, nessuno avrà più notizie del piccolo. Nemmeno Elena ci dirà mai cosa sia accaduto negli istanti successivi alla telefonata, di cosa la polizia – disattenta e troppo incline alla burocrazia – abbia fatto e di quale disattenzione il marito Ramon si sia macchiato e di quale grosso rimorso sia portatore. Ciò di cui siamo certi è che Elena non parla del suo dolore: anche dieci anni dopo, preferisce il silenzio di un pianto soffocato alla liberazione. Forse per lei è meglio che tutti la credano pazza piuttosto che madre. Si chiude quando sente qualcuno bisbigliare la sua storia, si nasconde in se stessa quando il ricordo fa capolino. Da quella maledetta chiamata sono intercorsi dieci anni, durante i quali non ha più acceso un telefono cellulare: non sa nemmeno come funzionino. È come se avesse tagliato tutti i ponti con il mondo trasferendosi sulla spiaggia del fattaccio e vivendo in una costante attesa. Di cosa, non si sa. Si intuisce però che Elena attende. Attende di tornare a una parvenza di normalità, grazie anche a una nuova relazione sentimentale con un uomo che poco chiede e molto sembra sapere o capire.
Le giornate di Elena sono scandite dalla routine, da una perversa abitudine che la vuole ora al lavoro ora sola a casa. Almeno fino a quando nei suoi occhi non entra Jean. Sa bene che non è suo figlio: è francese e non gli somiglia. In cuor suo, però, le ricorda ciò che le è stato strappato. Ne rivede le emozioni, i tormenti e le azioni di cui si sarebbe rivestito se fosse ancora lì con lei. E allora si lascia andare, si lascia avvicinare, fa sì che entri nella sua fortezza e, contemporaneamente, travolge il ragazzo con il suo sguardo. Mentre Elena fa prevalere il suo istinto materno, Jean permette alla sua psiche di seguire tracciati edipici: la sua nuova “mamma” è anche la sua nuova amata e per lei è pronto a sfidare i maschi della sua famiglia, dal padre al fratello, ma anche Joseba, il nuovo compagno di Elena o la madre biologica, una donna con cui non sembra voler andare d’accordo e che ha un’idea di maternità diversa da quella di Elena. Il contesto dei coetanei è qualcosa da cui Jean fugge via negli stessi momenti in cui Elena vi ritorna per assaporare un’ultima ventata di spensieratezza, prima di un brusco ritorno con i piedi per terra. Diverso dai ragazzi della sua età che amano il calcio, il divertimento e le ragazze, Jean è fuori dal tempo, in quella stessa dimensione in cui Elena spera un giorno di ritrovare chi ha perso.
A Sorogoyen non interessa indagare quanto occorso a Ivan sulla spiaggia. Non interessa nemmeno soffermarsi sull’indomani della scomparsa. Naviga semmai lontano nel tempo, in un domani e altrove che non ha né inizio né fine. Così come la storia è aperta a un happy end (con un chiasmo narrativo, una telefonata fa presagire il peggio prima di svoltare sapientemente), gli spazi fisici di Elena sono sconfinati e contrastano con la chiusura del suo io. Sequenze realizzate a 360° o con vie di fuga inusuali per il cinema non sperimentale regalano la sensazione di essere testimoni diretti di quanto accade in scena: pian piano, lo spettatore entra nella storia e si interessa solo a ciò che accade, non ponendosi domande sul perché di determinati comportamenti o su cosa poteva essere. Non sa nulla di più dei personaggi, non può ergersi a giudice e non può lanciare sentenze sui comportamenti in scena: diversi sono i momenti in cui il regista sembra sfidare chi segue la storia, anche con sequenze che a un montaggio finale potrebbero essere rimosse senza intaccare il grado zero del racconto.
Si assiste inermi all’evoluzione di Elena che, ritornando a essere madre seppur per un breve lasso di tempo, si riappropria del suo essere prima di ogni cosa una donna incline a un istinto più grande di lei. Sopravvivenza e salvezza diventano la sua ragione d’essere e nel salutare Jean pone la parola fine a un dolore fin troppo procrastinato e a un rancore (verso l’ex marito Ramon) che da nessuna parte la porterà mai. Nel salutare Jean, Elena saluterà per sempre il suo Ivan e quell’isolamento che si era imposta: lasciando entrare Jean nella sua vita le ha permesso di riprendersi quell’Ivan che aveva perso e di vincere l’etichetta che la gente le aveva affibbiato. Già, perché Elena era pazza come pazzo è colui di cui nessuno intuisce le vere ragioni di un comportamento non condiviso, colui il cui dolore non trova conforto.
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