Regia di Corneliu Porumboiu vedi scheda film
Il film è un buone prodotto della nuova cinematografia rumena girato con perizia e ben intrepretato. Peccato per la sceneggiatura un po’ troppo sfilacciata. Nonostante questo però, è un‘opera indubbiamente non semplice da seguire ma interessante in cui il regista collega e coordina fra loro piccoli frammenti di verità in apparenza inconciliabili
“…Alcuni anni fa ho visto un reportage sul linguaggio dei fischi utilizzato sull’isola La Gomera. Avevo appena finito di montare Politist, adjective e avvertivo il bisogno di distrarmi un poco e allora, incuriosito, ho iniziato a leggere tutto quanto sono riuscito a recuperare su questo argomento che avevo trovato molto interessante. Sono andato anche sull’isola per capire che effetto mi facesse la verifica in loco di questa particolare forma di comunicazione. E’ così che mi sono convinto di dover scrivere un film che avesse al centro questo linguaggio singolare ma anche divertente e inusuale. Più che un’immagine dunque, è stato un suono a scatenare l’ispirazione che mi ha portato poi a girare questo film (...) che ha certamente a che fare con la cosa che mi interessa maggiormente che è poi lo studio del linguaggio cinematografico e le sue possibili variazioni. Parlo soprattutto del linguaggio dei simboli che trovo molto adatto da applicare a un cinema che vuole essere anche politico ma in una forma non strettamente canonica. Più passa il tempo insomma, più mi accorgo di essere interessato soprattutto a come voglio dire le cose piuttosto che a cosa voglio dire e questa mia ultima fatica credo sia la dimostrazione pratica di tutto questo”. (Corneliu Porumboiu)
Il cinema di Corneliu Porumboiu è sempre ricco di stimoli e di nuovi spunti che lo rendono molto interessante.
Il regista ha infatti un suo stile ben definito e soprattutto un modo molto personale di rappresentare le storie che racconta. Lo conferma il suo percorso artistico fatto ancora di pochi titoli spesso selezionati però per la programmazione nei festival internazionali più importanti nei quali hanno raccolto molti premi e i riconoscimenti unanimi (non solo di stima) da parte dei critici di tutto il mondo.
Possiamo asserire dunque che, nonostante la sua ancor giovane età, ci ha regatato fin qui opere dai tratti riconoscibilissimi, tutte segnate da un forte spirito ironico se non addirittura grottesco, e questo indipendentemente dalla seriosità delle tematiche trattate.
Non fa eccezione questa sua ultima fatica passata con successo prima da Cannes e poi dal Torino Film Festival e che forse, fra tutti quelli che ha fatto fino ad ora (almeno per quelli che ho potuto visionare io), è sicuramente non dico la più compiuta, ma certamente la più intrigante poiché risulta ancor più amplificata la dimensione metaforica del suo cinema qui portata quasi al parossismo all’interno di una pellicola (definita da Simone Emiliani la sua ultima follia) che mischia lingue e soprattutto molti generi (ma senza rispettarli pedissequamente) scanditi su ritmi e regole codificate che variano dal western al poliziesco e al giallo, dal thriller al noir. Così, mentre la storia si intorcina e il film scopre la propria natura riflessiva e un po’ pazzoide, Cristi (il suo protagonista) diventa l’ingranaggio di un gioco complesso e dal futuro incerto in un connubio affascinante e molto originale di situazioni stravaganti che è l’aspetto più singolare di un’opera (per me) sorprendente e volutamente “scombinata” come questa.
Permettetemi comunque di sottolineare con forza quel “per me” poiché ci troviamo di fronte a un film (che per semplificare classificherei come un noir alla rumena) tutt’altro che facilissimo da seguire nella scansione un po’ frenetica dei suoi capitoli zeppi di doppi e tripli giochi, di inseguimenti, di illusioni e di variabili impazzite che si combinano però perfettamente coi vari personaggi e le loro azioni. E’ dunque quello che da me viene considerato un pregio che potrebbe al contrario infastidire e rendere un poco problematico seguire il progredire del racconto in tutte le sue fasi a causa della sua costruzione articolata che va avanti e indietro nel tempo (fra passato e futuro, si potrebbe dire) con i suoi capitoli (ciascuno caratterizzato dal nome di uno/a dei suoi protagonisti) non sempre montati in ordine cronologico. Se non si riesce (o non si ha voglia) di farsi risucchiare dal ritmo sostenuto della pellicola e di farsi alla fine travolgere dal vorticoso andirivieni che accompagna le vicende dei personaggi multiformi che popolano la pellicola i cui tratti mutanti emergono gradualmente rivelando aspetti inaspettati e un po’ spiazzanti, ci si può facilmente arrendere alla noia e al disagio che, se prendono poi il sopravvento, potrebbero finire per bloccare allo spettatore l’insorgere di quell’alchimia empatica (a mio avviso fondamentale) con la storia (forse anche con qualche ragione devo dire, perché non tutto è chiarissimo nella sceneggiatura - dello stesso regista – che è la parte più debole del film e che avrebbe dovuto essere almeno un poco più solida e conseguente per eliminare del tutto questo rischio).
Sicuramente disorienterà un poco gli spettatori che sono abituati a un cinema rumeno fatto di introspezione, fitti dialoghi e critica sociale perché questa pellicola è tutt’altra cosa anche se un po’ di critica sociale ci si intravede a tratti pure qui.
Non privo di qualche piccola smagliatura, è comunque un film che recupera abilmente i segni indelebili di quel classicismo hollywoodiano (e non solo) che fa parte dell’immaginario collettivo con una costruzione a strati piena di riferimenti citazionistici e di qualche (godibilissimo) inserimento cinefilo più diretto (che la dice lunga sugli intenti anche rivisitativi del regista) a partire da Sentieri selvaggi dichiaratamente omaggiato nella sequenza della proiezione della pellicola nella cineteca di Bucarest. Ma non c’è solo questo ovviamente (vedi la resa dei conti ambientata in un set western ormai abbandonato e altre piccole chicche profuse a piene mani in tutta la pellicola come la sorprendente rielaborazione - realizzata con geniale originalità - che Porumboiu fa della celeberrima scena della doccia di Psyco di Hitchcock (che è un altro suo evidente riferimento tutt’altro che secondario). Prendetemi per matto ma a me la visione di questa pellicola così sfaccettata e piena di sorprese, ha fatto affiorare dalla memoria piccole ascendenze visionarie che rimandano anche al primo Besson e a Diva di Jean-Jacques Beineix (qualcuno si ricorda ancora di questo film che a suo tempo fu molto celebrato?).
Sentieri selvaggi dunque…. Ed è proprio dai fischi degli indiani di uno dei più maestosi western di John Ford che prende corpo questo film fatto di suoni, di linguaggi in codice (una sorta di alfabeto Morse che non è né pretestuoso né tantomeno campato in aria, perché ha un fondamento reale ed ha proprio a che fare con l’isola La Gomera nell’arcipelago delle Canarie) che qui viene utilizzato per comunicare senza correre il rischio di essere ascoltati dai poliziotti a caccia di prove, ma assume al tempo stesso anche il valore di un elemento surreale di supporto capace di dare maggior spessore a tutta l’opera.
A proposito di suoni, non va dimenticato poi il prezioso apporto musicale della colonna sonora che spazia da PassengerdiIgg Popp a Orfeo all’infernodi Offenbach passando per Casta Divadalla Norma di Bellini.
E poi ci sono gli sguardi sull’azione che variano da personaggio a personaggio tutti chiamati a raccontare la propria cangiante verità che si modifica e assume nuove forme creando una grande confusione, a seconda dei differenti punti di vista perché ognuno tende a portare l’acqua al suo mulino e a privilegiare i suoi interessi.
Non è secondario nemmeno lo sguardo esterno del regista (bravissimo nel suggerire di volta in volta l’ipotesi che ogni singola sequenza poteva anche essere stata girata in maniera diversa e che la sua è solo un’opzione fra le tante che potevano essere adottate (e qui si ritorna al cinema, o per meglio dire ancora, “alla visione della finzione”, che è poi l’essenza del cinema stesso e che spesso si rivela il mezzo più appropriato per disvelare verità nascoste che altrimenti sarebbero rimaste occultate). Simone Emiliani si spinge ancora oltre definendo la telecamera che filma, il giusto mezzo utilizzato dal regista per farla diventare allo stesso tempo strumento di controllo e veicolo di voyerismo post De Palma che a me sembra una definizione molto azzeccata.
Sui personaggi, la loro multiforme struttura psicologica e le radici che li hanno generati, ci sarebbe poi da ragionare molto perché (e ce lo racconta il regista stesso) è proprio da loro che è partito ed questo prima ancora di aver definito la storia che intendeva raccontare (lo ha dichiarato nel corso di un’intervista rilasciata a Cannes della quale riporto un piccolo stralcio): “(…) prima di tutto il resto, ho cominciato a pensare ai personaggi e a scrivere di loro senza che la storia fosse ancora pronta. Poi li ho incrociati e messi a confronto per vedere quanto potevano funzionare.. Alla base c’è comunque il tema dei soldi e sono stati proprio i grandi classici di una volta a fornirmi l’ispirazione primaria e la chiave giusta sia per l’elaborazione delle loro psicologie che per la griglia narrativa successiva. Me li sono riguardati più o meno tutti quei vecchi film, da Gilda a La morte corre sul fiume, da Il terzo uomo a Il grande sonno, da Notorius (per il ‘doppio incrocio’ e le persone che si nascondono), a Il mistero del falco”.
Sicuramente tutto questo è stato un supporto importante per la stesura del racconto, tanto è vero che il nome di Gilda lo ha poi travasato anche nella sua storia assegnandolo a una delle principali figure femminili della pellicola. L’influenza si avverte però anche per tutti gli altri personaggi a ciascuno dei quali ha affidato una propria specifica funzione in questa specie di balletto un po’ folle, che li vede tutti quanti schierarsi di volta in volta, volubili come delle banderuole, per una o più fazioni… mischiando così le carte e complicando un poco il gioco.
Girato fra la Romania e l’omonima isola delle Canarie, il film come si è già visto prima, ha per protagonista Cristi, un poliziotto del quale vediamo ricostruita gradualmente una carriera non proprio al di sopra di ogni sospetto (e questo lo scopriamo via via che interagisce con gli altri personaggi, primo fra tutti quello di Gilda, la femme fatale che lo aveva avvicinato qualche tempo prima a Bucarest e che adesso lo sta aspettando a La Gomera). Intorno a loro, si muovono altre figure come Keko, il suo collaboratore che gli ha insegnato il linguaggio dei fischi, Szolt (un imprenditore locale sospettato di riciclare i proventi del traffico di stupefacenti) e Paco, un boss spagnolo. C’è anche Magda, il commissario capo che nutre sospetti sull’onestà di Cristi, nonché la madre di quest’ultimo che interviene a complicare i piani come solo una madre (per giunta vedova) riuscirebbe a fare. E poi…. No niente e poi: mi fermo volutamente qui perché la trama si deve rivelare a poco a poco come in un gioco di scatole cinesi. Scatole che ogni spettatore dovrà però provare ad aprire per proprio conto altrimenti, se anticipate nel loro meccanismo, si perderebbe gran parte del divertimento.
Il film contiene comunque (fra materialismo e incomunicabilità) anche intelligenti riflessioni sulla società rumena e nonostante la complessità della sua composizione scenica, Porumboiu riesce a procedere spavaldo, con passo sicuro e con salda mano verso la conclusione della storia insieme ai suoi valenti attori grazie a una regia geometrica ma piena di invenzioni che passa disinvoltamente come in un bizzarro teatro dell’assurdo, da uno stralunato motel per melomani che stupirà sicuramente lo spettatore, all’abitazione di Cristi, dalle Canarie alla Romania per approdare poi al luogo deputato (vedi sopra) dove si arriverà allo scioglimento della storia e dei suoi intrighi in un gioco al massacro fra il tragico e l’esilarante incorniciato da finestre, camere di sorveglianza e specchi riflettenti.
Rimane adesso solo da accennare alla buona prova degli attori, soprattutto quella del bravissimo Vlad Ivanov lo statuario protagonista (forse il nome non dice molto, ma lo abbiamo incrociato tantissime e volte sollo schermo, sia pure in ruoli più secondari, da Dogs (Caini) in originale, a 4 mesi, 3 settimane e due giorni; da Un padre, una figlia a Il concerto, daToni Erdman a Il caso Kerenes, da Snowpiercer di Bong Joon-ho fino a Mar Nero girato qui in Italia. Ottime anche le prove di Rodica Lazar (Magda) e Catrinel Marion (Gilda).
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