Regia di Enrico Maria Salerno vedi scheda film
Ho da sempre considerato "Anonimo veneziano" il paradigma esemplare di un sentimentalismo melodrammatico spinto alle conseguenze estreme del cattivo gusto.
La responsabilità primaria di questo risultato, sta proprio nella regia patinata ma sostanzialmente anonima di Enrico Maria Salerno che si è cimentato in un film il cui fine ultimo è - con tutta evidenza - quello della cassetta (e devo dire allora che in questo ha visto giusto, mescolando fra loro e non sempre al meglio, tutti gli ingrdienti necessari a stimolare il pianto che credo sia stato l'elemento primario che a suo tempo ha fatto riempire le sale). Il problema vero sta però nel fatto chen Salerno non è certo stato un Matarazzo, anche se a lui si è sicuramente ispirato pur non avendo le stesse sue capacità (anche di tenuta) follemente convinto come sembra essere, dell"artisticità" del risultato della sua impresa che gli ha fornito comunque una effimera gloria (che per quel che mi riguarda non va oltre l'indubbia capacità che ha avuto di illustrare una sceneggiatura -di Berto - così decadentemente deprimente, da sembrare scritta da un dilettante anzichè da un romanziere di successo anche se un po' sopravvalutato).
Il film vuole mostrare la storia di un matrimonio in crisi (e quindi di un amore e di una sofferenza che ha portato a una separazione, ma che poi risorgerà ancor più tumultuosamente seppur senza speranza perchè minato da una malattia in fase terminale). Tempistica perfetta se si pensa che il film uscì quando la battaglia per il divorzio si era fatta più accanita e appassionava fra i pro e i contro, l'Italia intera.
Aveva poi dalla sua due attori "belli" e sulla cresta dell'onda del momento come la Bolkan e Tony Musante (all'epoca anche un po' "dannato", con la sua aria da tenebroso), un tema musicale struggente e una Venezia da cartolina illustrata, oltre a una storia, quella di un 'amore morto che risorge per poi morire realmente in uno dei due personaggi che poteva dunque così bene intrecciarsi con quello altrettanto suggestivo per una città di fatto altrettanto agonizzante ma che non muore mai (o almeno si spera che sia così).
"Morte a Venezia, dunque ma interpretata da due personaggi che, ben lontani dal decadentismo manniano ( per quello c'è voluto un grande Visconti) sono solo la summa del cattivo gusto borghese.
Lui è infatti un direttore fallito, da sempre incapace di portare avanti con costanza il suo lavoro (e qualsiasi altra cosa) pieno di passione furiosa per la moglie anche se va con tutte le puttane che trova in giro per San Marco e dintorni, abbrutito da un cancro alla testa che gli rende lucidi e crudeli i giorni che gli restano da vivere; lei è una signora bene indubbiamente molto più costante e passionale del marito (il loro è stato un colpo di fulmine ai tempi dell'accademia , e come non poteva esserlo in un film di siffatta sostanza?) che lo ha amato e gli ha anche perdonato le troppe corna che lui gli ha fatto, ma che per assicurare un tranquillo avvenire al figlio, ha dovuto piantarlo e si è messa insieme - guarda caso - con un ricco industriale.
Cosa poteva uscire fuori dopo anni di separazione forzata se non un podistico giro molto faticoso e poco poetico alla ricerca del tempo perduto (e mi scuso con Proust per l'accostamento) riferito a quando il loro amore era fatto di pastasciutta afrodisiaca e di corse sui prati verdi che non potevano essere riprese dall'insignificante regia di Salerno se non al rallentatore se non questo pasticcio?.
Ci sarà ovviamente anche una specie di canto del cigno di questa improbabile figura di direttore d'orchestra (non è che Sorrentino per la sua "Youth" si è ispirato proprio a questo?) che si risolve in un concerto in cui verrà eseguito "quel famoso" pezzo (che diventò immediatamente dopo un "gettonato" tormentone) e che sta incidendo con alcuni studenti per trasformarlo in un disco che dovrà essere l'opera che lo ricorderà ai posteri e al figlio, ora in custodia alla madre.
L'unico risultato dunque non poteva essere che uno spettacolo per "bocche troppo buone" lungo quasi due ore e zeppo di luoghi comuni intrisi di solennità gonfia e oratoriae stimolatorio di troppi fazzoletti per asciugare le lacrime di chi è tanto sensibile da non essersi nemmeno accorto di essere stato invece "baggianato".
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