Regia di Greta Gerwig vedi scheda film
Quelle quattro sorelle putative che si aggirano per New York cercando di conciliare affetti e carriera, indomite nel perseguire le proprie aspirazioni ma concilianti col sogno del grande amore, non sono che l’evoluzione camp e odiernadi piccole donne cresciute più disinibite e spostate in un ambito cittadino a cercare il sesso perfetto in cui trovare anche, a volte, l’amore. Ma nel glamour vistoso e artificioso di Sex & the City, nell’apparente contemporaneità del contesto e oltre il marcato accento sul desiderio esplicito, si nasconde (e tradisce) una radice antica della letteratura e della società americana, quel Piccole Donne che Greta Gerwig riporta, invece, alle origini, con rinnovata modernità pur nella confezione canonica del film in costume.
L’aggiornamento del testo, inalterato e inalterabile nella sostanza, si risolve nell'interpretazione degli attori e nell’attualità classica di personaggi, immutabili come eroi shakespeariani, nel sottolineare certi elementi e marginalizzarne altri. Nel resoconto della nascita del libro stesso come un’autobiografia riflessa della Alcott, nelle concessioni di Jo con l’editore e negli aggiustamenti della trama ad un apparente conformismo, il film trova una moderna chiave meta-narrativa, assieme a una diversa scansione dei tempi,una ricostruzione anti-cronologica delle vicende che si muove tra flash-back e anticipazioni che differenzia questa versione dalle precedenti.
Ma è soprattutto una briosa leggerezza a pervadere il film e a trascinare il racconto, il quale comunque mantiene i suoi capisaldi drammatici e i necessari lutti, lasciando però molto sullo sfondo la guerra civile con il coinvolgimento del padre (figura che rimane un po’ marginale e che avrebbe meritato un interprete semplicemente più carismatico), mentre si concentra quasi tutto sulle sorelle March e sul gineceo costruito attorno al fulcro familiare della madre, sobriamente caratterizzato da Laura Dern, pilastro emotivo inalterabile ed esempio di impegno sociale, simbolo di unità domestica e, al contempo, di apertura agli altri.
La lievità apparente di Jo, così sensibile ad adeguarsi al proprio io interiore da scegliere le vie più traverse e meno confortanti per trovare una felicità che sembra volersi negare, contagia però l’intero film, che trova forse la sua espressione migliore nella danza improvvisata con Laurie alla festa, mentre la seriosità del rito sociale si svolge all’interno dell’abitazione e i due trovano spazio per sfogare aspirazioni di libertà e d’intesa. Un pas de deux proto-punk che sigla una comunione d’intenti il quale, per la ragazza, implica un eccesso di somiglianza e ha come conseguenza il rifiuto di un’anima troppo gemella, proprio quando per il ragazzo sembra disvelare la perfezione di un accordo musicale.
Costretta delle limitate finanze di famiglia a trovare lavoro e a conciliare aspirazioni e denaro, sussistenza e sopravvivenza del desiderio, Jo March si muove costantemente, con un’irrequietezza che la ritrae sempre in cammino o di corsa, tanto che anche le soste davanti alle pagine da sporcare di vita e d’inchiostro hanno solo l’apparenza di una stasi, mentre la mente vaga a comporre frasi e a riordinare parole, cercando di organizzare il mondo come in un libro. È come se quella danza a due proseguisse in un numero solitario, senza interrompersi mai per non dover affrontare la stanchezza, e la freddezza del mondo esterno.
Romanzo di formazione per eccellenza, questo Piccole donne non privilegia Jo se non nel punto di vista e per il tempo quasi musicale che imprime alla narrazione, lasciando a tutte le sorelle lo spazio per lo sviluppo che la trama consente, ognuna alla ricerca della realizzazione di sé, nell’amore semplice o nella sua aderenza alle ambizioni personali, artistiche o economiche, imparando dalla madre (devota alla famiglia ma povera) come dalla zia (zitella però ricca) a trovare una strada individuale. Inquadrando tutto all’altezza delle sue protagoniste, dando a ognuna di loro il volto di una diversa caratterizzazione anche nella sola scelta delle interpreti, Gerwig non cerca l’ostentazione del femminismo ma trova nella femminilità una forte armonia, rispecchiata nella classicità figurativa delle inquadrature, morbidamente pittoriche, nella tonalità di una fotografia che sfugge ai contrasti, in una regia al servizio di personaggi e narrazione, che continua il racconto della nascita di consapevolezze e ambizioni intrapreso da Ladybird e della difficile attuazione di ogni teoria romanica alla pratica laica della vita.
Da quell’esordio la regista trasla di peso Saoirse Ronan (e Timothée Chalamet), l’eroina combattuta, e la circonda di attrici britanniche come Emma Watson, il cui noto attivismo è piegato al destino di dedizione amorosa di Meg, o Florence Pugh, reduce da ruoli drammatici minori (Lady Macbeth, L’uomo del treno) che diventa Amy, bizzosa artista che si arrende all’assenza di talento per scegliere la via della solarità economica, e dell’australiana Eliza Scanlen, la quale smette i panni sudati e fatali della sorellina di Sharp Objects per rassegnarsi, con uguale masochismo, alle sofferenze di Beth.
Nella coralità del cast e nell’intesa tra le attrici, la regista ricrea l’armonia della famiglia March in un film moderno e classico, costruito su una regia poco invadente, restia a intromettersi di peso nelle pagine della Alcott e rimanendo quasi ritrosa ad osservare quelle figure prendere vita un’altra volta nei volti di una nuova generazione, con le assonanze e i riverberi che quella storia antica riproduce nell’oggi.
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