Regia di Greta Gerwig vedi scheda film
Femminista. Personale. Brillante.
In un periodo in cui l’originalità non è di casa a Hollywood e in cui si riciclano sempre le stesse storie, l’ultimo adattamento del romanzo di Louisa May Alcott ad opera di Greta Gerwig sembrava rientrare decisamente in questa casistica.
Invece, seppur non esente da difetti o forzature, il risultato è un’opera che, pur rispettandone l’originale, riesce a riflettere il proprio tempo.
Non era assolutamente semplice riproporre un nuovo adattamento dei celebri romanzi di Louisa May Alcott dopo ben quattro trasposizioni precedenti, dalla prima con un’ancora giovanissima Katherine Hepburne nel 1933 a quella, probabilmente la più famosa, del 1949 con Elizabeth Taylor e Jenet Leight e diretto da Mervyn LeRoy fino alla più recente, del 1994, diretto come quest’ultimo da una regista, Gillian Armstrong, e che vedeva nel cast Winona Ryder, Kristen Dunst, Claire Danes e Christian Bale ma Greta Gerwing, anche sceneggiatrice della pellicola, riesce, con un taglio ben preciso e attraverso una visione molto personale pur rimanendovi comunque fedele nella sostanza, a continuare dopo il suo debutto cinematografico con Lady Bird il suo personalissimo racconto del mondo femminile, di oggi come anche di allora, mettendo principalmente in primo piano gli ostacoli e i problemi affrontati dal mondo femminile per raggiungere una propria autonomia e indipendenza rispetto a una società prettamente patriarcale, elementi presenti già in origine nei romanzi della scrittrice americana ma che in questa pellicola vengono ulteriormente rimarcati ergendosi quasi a manifesto del movimento Me Too o come “specchio” del femminismo americano contemporaneo.
Poteva qualcosa rendere più attuale (o vendibile?) di così il classico della Alcott?
Ma in questo modo la regista riesce anche a donare al racconto della Alcott una freschezza e una vivacità inaspetatta, grazie anche (soprattutto?) a una narrazione infedele all’originale e frammentata in due tronconi paralleli e distanti temporalmente sette anni, quello che apre la pellicola nel 1868 con le ragazze separate e Joe insegnante privata a New York mentre tenta di diventare scrittrice e quello sette anni prima, quando erano ancora tutte insieme a casa, in un continuo alternarsi delle vicende costruite ad arte per incastrarsi tra loro e legarsi reciprocamente, donando al film un dinamismo e una versalità inedita per un racconto amatissimo e noto a tutti e quindi con molto poco ancora da rivelare.
Inoltre mescolando i romanzi con la biografia della stessa Alcott (ma qualcosa del genere credo sia stato già sfruttato nell’adattamento del 1994 della Armstrong, se non mi sbaglio) e rendendo il personaggio di Jo ancora più centrale del racconto in quanto non soltanto interprete dele intenzioni della scrittrice Louis May Alcott ma anche, per “osmosi” (diciamo così), della stessa regista/sceneggiatrice Grata Gerwig, inserendovi se stessa e la propria visione del mondo, e attraverso la similitudine tra le due scrittrici di temi e ideali care ad entrambe quali, ad esempio, quello della famiglia e soprattutto della crescita e della emancipazione femminile anche/soprattutto attraverso la scrittura (e il racconto, anche cinematografico) in un modo che tutto questo appaia in modo naturale e per nulla forzato, almeno fino a un finale dove tale equilibrio invece viene in parte a mancare.
A questo bisogna aggiungere un cast d’eccezione di giovani stelle su cui spiccano soprattutto Saoirse Ronan e Florence Pugh, a ulteriore conferma per entrambe di un talento purissimo per presenza scenica e naturalezza nel rappresentare i loro personaggi sia nel “presente” che nel passato, e non è un caso che le scene migliori sono loro ad esserne le protagoniste.
Mentre decisamente meno esplosive le altre sorelle interpretate da Emma Watson e Eliza Scalen ma anche lo stesso Timotheè Chalamet, in un ruolo più insolito rispetto al classico Laurie, risulta più sotto tono o almeno più “banale” di quanto dovrebbe essere.
Ma è soprattutto nel finale che il film si discosta dal romanzo, deviando soprattutto in una riflessione critica e ingiurosa, forse anche eccessiva, verso l’industria letteraria (allora) come anche cinematografica (oggi) tra sequel e happy ending onde accontentare il pubblico e incassare quanto più possibile, discriminazione femminile e, di contrasto, apologia della donna costretta a continui vessamenti pur di poter sopravvivere con un passaggio a mio parere troppo forzato e fin troppo esplicito, nei tempi e nei toni, e con un cambiamento troppo brusco rispetto a quanto visto precedentemente.
Che alla regista gli sia un pò scappato e abbia, nell’ardore del momento, calcato un pò troppo la mano?
VOTO: 7,5
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta