Regia di Greta Gerwig vedi scheda film
Ho fatto fatica a rimanere seduto sulla poltroncina della sala fino alla fine della proiezione. Avevo l’impressione di affogare in una indesiderata melassa di dolci sentimenti, sentimentalismi e gigionerie varie, un susseguirsi di sequenze in cui quelle quattro adolescenti rimbalzavano come quattro palline da tennis.
A questo punto è legittimo chiedersi se abbiano ragione i detrattori di Greta Gerwig oppure se il film sia semplicemente, come capita a tanti, un passo falso nella carriera. Oppure, ancora, la domanda da porsi è se sia una regista sopravvalutata. Eppure, in Lady Bird (recensione) il suo esordio in solitario (in precedenza c’era stato un film a quattro mani) fu per molti (me compreso) un ottimo lancio nel mondo degli autori: aveva saputo illustrare un certo ambiente familiare e le inquietudini giovanili di una ragazza alla vigilia del suo debutto nel mondo, un vero romanzo di formazione. Mai però si potrebbe usare questo termine per il film in questione, essendo il romanzone di Louisa May Alcott uno di quei libri che meglio definiscono l’adolescenza e la crescita di alcune ragazzine, pur tenendo presente i tempi in cui si svolgono i fatti. Invero credo che la maturazione dell’individuo segua sempre un percorso più o meno identico a prescindere dai periodi storici in cui avviene, che in ogni caso ne condiziona il ritmo e la stabilizzazione. Meglio ancora, come in questo caso, quando la nota scrittrice ottocentesca ha la possibilità e le risorse mentali di scriverne abbondantemente e con minuziosità, avendo pubblicato due romanzi separati poi riuniti undici anni dopo in un unico libro. Libro di grande successo e sempre letto, molto gradito dalle giovanissime, a cui maggiormente questo film si rivolge.
Il mio poco incoraggiante giudizio è però condizionato gravemente dal fatto che non ho letto il romanzo, né me lo propongo, essendo molto lontano da quelli che sono i generi letterari che arricchiscono la mia biblioteca. Motivo per cui mi astengo da fare paragoni tra le due opere e ragionamenti sulla trasposizione, che in ogni caso ritengo ormai da molti anni un errore: nel dare una opinione bisognerebbe sempre tenere distinti i due campi, quello letterario e quello cinematografico, perché un regista, se ne ha la possibilità, deve adattare il libro di partenza alla sua idea personale e farne una propria opera, senza però mai stravolgerlo. Quindi mi atterrò a ciò che mi ha impressionato di più guardando il film.
Ho fatto fatica a rimanere seduto sulla poltroncina della sala fino alla fine della proiezione. Avevo l’impressione di affogare in una indesiderata melassa di dolci sentimenti, sentimentalismi e gigionerie varie, un susseguirsi di sequenze in cui quelle quattro adolescenti (quattro attrici capaci di ben altro tipo di recitazione) rimbalzavano come quattro palline da tennis, tenute assieme da una mamma così amorevole e cristianamente generosa che da un momento all’altro avrebbe mostrato perfino le stimmate di santa.
Non so e non sapremo mai con quanta sincera passione questo notevole cast femminile abbia aderito alla realizzazione del film, perché qualcuna di loro ha dato il meglio di sé proprio con ruoli molto più aggressivi e cattivi, molto più confacenti alla loro capacità e talento naturale. Lasciamo stare Emma Watson che anche col passar degli anni resta la bambolina dei primi tempi, mettiamo da parte l’attrice simbolo della Gerwig, Saoirse Ronan che è parecchio dotata ma deve saper uscire dal cliché che si è costruita ma che ha saputo dare il meglio di sé in un ruolo sicuramente a lei congeniale, ma vogliamo parlare di Florence Pugh? Quello che l’eccellente attrice britannica ha saputo dimostrare in Lady Macbeth (recensione) e Midsommar – Il villaggio dei dannati sta a dimostrare il suo grande potenziale, che non andrebbe sprecato per questo genere di film, dove sicuramente, come gli altri, ha colto l’occasione per un maggior rilancio nella carriera. I suoi primi piani, il suo viso altamente espressivo, le sue giravolte fisiche e mentali nei panni dell’attraente Amy March credo siano tra le cose migliori viste nelle due ore abbondanti della storia, brutalmente rovinate però da un doppiaggio come sempre inadeguato, avendo lei invece un tono di voce più basso e molto incisivo in termini di recitazione. Per fortuna ci pensava, oltre la bella Florence, l’immortale bravura di Meryl Streep a rimettere le cose sul giusto binario: è bastata qualche smorfia delle sue per farmi far pace con lo schermo, con la considerazione che ad un’attrice così non si può affidare un ruolo così secondario, è uno spreco. Da parte sua, Timothée Chalamet ha fatto… il Timothée Chalamet, come sempre: lui ha proprio un talento istintivo ma incontra sempre registi che gli fanno fare spesso il solito personaggio. Gli unici a premiarlo sono stati sicuramente il maestro Woody Allen con Un giorno di pioggia a New York (recensione) e David Michôd con il bellissimo Il Re (recensione), in cui ha saputo e dovuto fare di più e meglio, uscendo dal solito ruolo di scavezzacollo ciondolante e nullafacente. Ma tutti, e ripeto tutti, sono incappati nella versione italiana in un pessimo doppiaggio, antico problema del cinema straniero in Italia, per cui il mio giudizio definitivo lo avrò come sempre dopo aver “sentito” la versione originale.
Nella lunga sequenza di scene mielose e di piccole gelosie infantili, alimentate da una sceneggiatura abbastanza banale e senza picchi, regna una regia senza mai un acuto o un salto di qualità: è una conduzione sempre regolare e classica, una piattezza formale basata soprattutto su una tradizionale messa in scena, con buona ambientazione da favola e abiti curati. Non so fino a che punto la regista è stata fedele al romanzo di origine (non conoscendo io il libro) ma la narrazione caratterizzata da una infinità di flashbacks e di salti verticali e orizzontali (indietro nel tempo e ritorni all’attualità, rimbalzi in altri luoghi e anche in altri tempi) costringe lo spettatore ad impiegare qualche istante per capire ogni volta in quale momento del racconto si ritrovi, dovendo stare molto attenti all’abbigliamento e all’ambientazione con minimissime differenze. Anche se non era strettamente necessario un’esposizione lineare, sarebbe stato sufficiente facilitare questo arduo compito con maggiore semplicità di descrizione visiva. Il culmine si raggiunge nella scena in cui il fidanzato di Amy è in ginocchio a chiederle la mano inquadrati da lontano con due querce in primo piano che fanno da arco d'amore, tipo foto di matrimonio da incorniciare, diomio! Ma come si fa? Una regia insomma che rimane troppo elementare e confusionaria nonostante i notevoli mezzi produttivi ed un cast di prim’ordine. Un romanzo per fanciulle adolescenti traslato con il massimo del buonismo e del politicamente corretto, come d’altronde chiede nella trama l’editore della bravissima Joe: per vendere bene un romanzo abbisogna che le donne alla fine dei libri o si sposano o muoiono. Così fece la Alcott, così fa la Gerwig.
Il mio giudizio severo scaturisce sicuramente dalla mia scarsa predisposizione per questo genere di cinema, ne sono cosciente, ma la qualità del film è quella che è, e il fatto che tranne quella di Saoirse Ronan sia rimasto praticamente fuori delle candidature dei Golden Globe (e a maggior ragione lo sarà per quelle degli Oscar) la dice lunga sul giudizio della critica ufficiale. Un buon celeberrimo racconto di formazione che si trasforma in un mediocre film – addirittura la quinta versione cinematografica, iniziando dal periodo del muto -, in cui si salvano per meriti propri innanzitutto la brava Ronan, oltre alla molto promettente Florence Pugh e ovviamente a Meryl Streep. Greta Gerwig a quanto pare non si allontanerà neanche in futuro da questo mondo di fantasia, essendo già al lavoro su un altro argomento fantasy: Barbie! E pensare che aveva iniziato come attrice e lavorato a diversi progetti di suo marito Noah Baumbach, regista di ben altra qualità e consistenza.
Perché si fanno questi film e perché hanno tanto successo? Forse la spiegazione la dà il grande Steven Soderbergh, da sempre regista indipendente, eclettico e coraggioso viste le sue scelte, in una intervista che parla del cinema americano di oggi e dei suoi lavori per Netflix: “Nessuno degli studios finanzierebbe un film come ‘The Laundromat’ [è su Netflix, cercatelo: è bellissimo e complicato, con una enorme Streep!]. Pensano che faccia parte di una ‘zona morta’: è un medio budget, destinato a un pubblico adulto. In Netflix invece si pensa che ci sia interesse per questo genere di film, che ci sia comunque un pubblico per questa proposta. Non c’era alcun film che io potessi indicare agli studios come riferimento, che avesse guadagnato dei soldi. Non potevo fare nessun paragone che giustificasse l'investimento di uno studio. Netflix lavora su un territorio che gli studios hanno abbandonato perché questi ultimi vogliono produrre solo film che sono stati già fatti [...]. Dopo 30 anni che realizzo film le ragioni per le quali gli americani vanno al cinema sono cambiate. Ho sentito un ribaltamento nelle loro motivazioni: vogliono evitare il reale, puramente e semplicemente. Il concetto di ambiguità, gli aspetti oscuri di certi personaggi sono stati affrontati dalla televisione e gli spettatori che sono interessati a questo sono emigrati verso questo tipo di televisione. I film per adolescenti sono andati incontro agli adolescenti che vogliono film per adolescenti: è un circolo vizioso. Attualmente i film che hanno successo non sono concepiti per gli adulti, sono dei film fantasy destinati a funzionare in qualunque parte del mondo, con qualsivoglia lingua.”
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