Regia di Aktan Arym Kubat vedi scheda film
Se le opere di Tonino Guerra rievocano la nostra provincia contadina, i film del regista Aktan Arym Kubat (Abdykalykov) sono specchio inconfondibile della società kirghisa che rimane, sostanzialmente, ancorata ad uno stile di vita rurale. Lo stesso stile che Guerra raccontava con passione e compiacenza nei suoi lavori e che il regista asiatico ripropone nella sceneggiatura scritta con l'artista romagnolo, prestato ad una regione così lontana ma in fondo così simile all'Italia contadina di un tempo. La scrittura di Guerra, messa da parte nel nostro paese, che ha irrimediabilmente voltato pagina, dimentico della società produttiva di mezzo secolo fa, non poteva, dunque, trovare miglior "casa" in un paese, ancora lontano dallo sviluppo tecnico ed industriale dell'Europa, come il Kirghizistan. Ignoro i percorsi tortuosi che hanno portato uno dei più grandi sceneggiatori italiani a collaborare con un regista praticamente sconosciuto in Italia come Arym Kubat, tuttavia, mi rendo conto che se poteva esserci affinità tra due mondi antitetici, questa poteva manifestarsi, solamente, tramite l'incontro tra un tipo di cinema classico, oramai superato, ed uno acerbo figlio di una società arcaica in fase di ridefinizione come quella kirghisa, che esce dalla dittatura Sovietica come quella italiana del dopo guerra usciva dal ventennio e da un conflitto devastante.
La storia raccontata da A.A.K. è quella della "scimmia", un ragazzino che, aspettando la chiamata al servizio militare, inganna l'attesa con un lavoretto part-time e le feste con gli amici con i quali è avvezzo a bighellonare. La scimmia in fondo non ha molto altro da fare. Non riesce ad aprirsi con la ragazza che gli piace ed è troppo timido per portarsi a letto la chiassosa prostituta del villaggio. La situazione famigliare è anche peggiore di quella personale. Il padre spende tutti i soldi in alcool e gioco d'azzardo e, quando è bello pieno, picchia la moglie esasperata. Quando la donna fa i bagagli e si porta via la bambina piú piccola, molto legata al fratello, il giovane, per rispetto nei confronti del padre, rimane sotto il tetto natio e tra noia, rancore ed inutili passatempi assiste, inerme, al malinconico passaggio della giovinezza che rotola lungo i binari della ferrovia allontanandolo dal proprio ambiente e dalla propria rassicurante dimora, forse per sempre. Difficile non pensare ad "Amarcord" del binomio Guerra/Fellini anche ignorando la presenza del primo nel cast tecnico del film. L'impacciato protagonista che non riesce ad avvicinare la bionda ragazza di cui è innamorato, e nemmeno approfitta delle attenzioni gratuite di una procace sempliciotta, che offre le proprie abbondanti grazie per denaro, riporta alla luce un genere di formazione maschile che rivendicava nell'atto sessuale una romantica maturazione fisica ed intellettuale. I maschi erano chiamati a diventare uomini anche se nella sostanza restavano bimbi. Il regista strizza l'occhio alla propria fanciullezza nel rappresentare la frustrazione sessuale di questi giovani tardo adolescenti che vorrebbero essere adulti mentre, in realtà, giocano con frammenti di specchio per spiare le mutandine alle ragazze e sbavano su un mazzo di carte da gioco a luci rosse. C'è malinconia e mestizia nell'umanità dai mille colori e dalle mille sostanze di questa landa sperduta dell'Asia centrale appena lambita dal progresso: i fannulloni che passano le giornate a fumare canne lungo i binari della ferrovia; il padre divorato dalla vodka; la madre consumata dalla fatica; i giovani che si mescolano in festini di musica pop assecondano un desiderio di multiculturalità o se preferiamo di omologazione e promiscuità; un solitario e deriso viandante senza più voglia di vivere; la ragazza sfigurata della stazione. È proprio a lei, così gentile e così solitaria a cui il giovane protagonista dedica l'ultimo sguardo prima che il treno lasci il paese. È lo sguardo della maturità, della presa di coscienza. Forse la scimmia tornerà in paese e avrà finalmente il coraggio di invitare a ballare una ragazza, quella giusta stavolta, educata e gentile perché quello che conta è la sostanza e non la fatua bellezza che lascerà il posto alla decadenza delle carni abbandonate dalla giovinezza. Una giovinezza destinata a bruciare in un effimero bagliore. La prostituta ne è assurta a simbolo: lei, prima salvata dalle oche dalla gallica invasione di giovanotti malintenzionati, poi condannata a perdersi nel fuoco purificatore che l'esorta a ripensare a se stessa.
A.A.K. ritrae la propria società con stile asciutto e realista lasciando poco al lirismo ma guardando ai propri personaggi senza imprimere giudizi morali o sentenze inappellabili. Ed in questo, forse, si denota, maggiormente, l'italico punto di vista del nostro Tonino Guerra in un'opera sostanzialmente asiatica nella regia sobria, riflessiva, per niente caciarona e modestamente ironica che vuole riportare alla luce ricordi autobiografici in un contesto in cui nulla è realmente cambiato.
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