Regia di Ivano De Matteo vedi scheda film
La storia è presto raccontata, in realtà è una non storia, non ci sono spoiler da temere, va tutto come va nell’ordinaria follia dei nostri giorni.
Tra Bassano del Grappa, provincia vicentina, e la laziale Grottaferrata Ivano di Matteo sceglie di ambientare questo noir all’italiana, una dramedy story familiare che guarda dietro le quinte di programmi come Chi l’ha visto, Quarto grado, per citare i migliori, e trash di vario genere televisivo che hanno un merito comune, al di là delle più o meno fantasiose ricostruzioni: è tutto vero.
E, soprattutto, è uno specchio crudo del Paese, da nord a sud.
Un film che ha un linguaggio più teatrale che cinematografico, dalle tre unità aristoteliche alla caratterizzazione dei personaggi, monolitici nella loro parte, simbolici nell’ essere rappresentativi di un modo di essere uomini.
Di Matteo si cala nella psiche di ognuno di loro, orientando magistralmente tutte le sfumature di quello che chiamiamo il linguaggio del corpo, e li mette su un palcoscenico ben attrezzato di oggetti di scena che fanno l’arazzo di fondo: la pingue tenuta vinicola Tamanin, vigneti che, dalle colline al mare, sono ormai quasi tutto quel che di “campagna” resta nell’ex “mitico” nord-est, la villa settecentesca del sior paròn, che non c’è più ma ha lasciato la degna matriarca rugosa, isterica e razzista (Erika Blanc) che tiene saldi i cordoni della borsa; c’è poi la cosiddetta “villetta”su tre piani e giardino superlusso dei rampolli Tamanin: la moglie, Diletta (Manuela Cescon) di modesta presenza che Giorgio, il marito (Marco Giallini) ha sposato per soldi, e per ovviare al tradimento del suo senso estetico se la spassa con negrette longilinee un tanto all’ora.
C’è la figlia adolescente, Beatrice (Monica Billiani)maleducata e ribelle perché ha tutto e non sa cosa volere di più, il ragazzino piccolo che strimpella Fra’ Martino al piano manco fosse il giovane Wolfgang, la domestica filippina e la cameriera rumena.
E il quadro familiare è completo.
Fuori di là c’è il paesotto, rimasto uguale dai tempi dell’età dei Comuni, uno di quei borghi che costituirebbero il fascino del bel Pese se non fossero circondati da autostrade e consumo industriale del suolo che meriterebbero dieci ergastoli alle classi dirigenti, almeno a partire dall’Unità d’Italia.
Bene, in questo borgo c’è don Carlo(Vinicio Marchioni), il prete bello che sa di esserlo (un omaggio a Parise?) il grasso medico ortopedico (Bebo Storti), amante di bombe alla crema e dedito a trafficucci non chiari con la sua professione, il commissario di Polizia ( (Massimiliano Gallo), naturalmente napoletano, e se diciamo naturalmente è perché dai vertici alla bassa manovalanza di veneti nel settore se ne vedono davvero ben pochi, chissà perché.
Su quest’ultimo, a nostro parere, Di Matteo calca un po’ troppo la mano, d’accordo con scandali recenti e passati che hanno squassato la fiducia dei cittadini nelle patrie istituzioni preposte a loro difesa, ma il poliziotto più malavitoso dei malavitosi è un clichè che sa di abusato, soprattutto perché, guarda caso, è napoletano.
Ma poco male, diciamo pure che ognuno di questi personaggi esprime il peggio di sé.
Se l‘umanità non è solo così ma è fatta anche di persone degne, a teatro (in questo caso al cinema) le regole sono diverse e non ci stupiamo.
La metafora insegna, l’allegoria ci apre gli occhi su cose che crediamo di sapere, che sappiamo, ma vedersele sciorinate senza tregua davanti agli occhi è un’altra cosa.
Lo schermo televisivo annacqua, dà sollievo, possiamo fare zapping, andare in cucina e spiluccare nel frigo, al cinema no, sei inchiodato alla poltrona, magari per andartene devi chiedere a dieci persone di spostarsi e non lo fai.
E vedi lo schifo.
La storia è presto raccontata, in realtà è una non storia, non ci sono spoiler da temere, va tutto come va nell’ordinaria follia dei nostri giorni.
Diletta è una buona donna che organizza col prete sagre paesane con torte e musicanti.
La pioggia rovina tutto e lei va in tilt perché è una depressa maltrattata dalla figlia e cornificata dal marito.
Da questo momento, seconda parte del film e la più serrata, la scena si restringe all’interno notte della villetta dove si consuma l’indicibile.
Adrian ((Ioan Tiberiu Dobrica), il giovane figlio biondo e nullafacente della cameriera rumena (Cristina Flutur, premiata interprete di Oltre le colline di Mungiu)brutto carattere anche lui, si aggira nella villetta. Sapremo poi che l’ha chiamato la figlia per qualche giochino notturno, ma la madre crede che sia un ladro e gli spara.
Aiuto! La pistola del marito a cui avevano tolto il porto d’armi non doveva essere lì. E, soprattutto, non doveva sparare.
Ma tant’è, il poveraccio dopo un po’ muore.
Si sarebbe salvato se avessero fatto venire subito un’ambulanza, ma figuriamoci, nessuno si decide a farlo, troppi scheletri in tutti gli armadi, e il grasso dottore che per un attimo, fatto venire, ricorda la sua etica professionale, si mette buono dopo che il poliziotto gli sussurra qualcosa all’orecchio!
Torna il marito in fretta e furia lasciando la negretta in doccia; il prete molto, troppo amico e confidente della donna, è stato il primo ad accorrere al richiamo della tremebonda signora con la pistola, il poliziotto, determinante nella decisione di tenere tutto all’oscuro, si sbuccia tranquillo una mela.
Come andrà a finire lo lasciamo alla giusta curiosità degli spettatori, ma è facile prevederlo.
Esportare cadaveri in Romania come delocalizzare fabbriche non stupisce più nessuno e, soprattutto, non si temono conseguenze legali.
E la madre del ragazzo? Che volete che faccia un’oscura, povera donna, migrante con mezza famiglia lasciata là e un ragazzo qua senza arte né parte? Le crederebbe qualcuno in paese se andasse a raccontare quello che ha capito benissimo?
E dunque la tensione, tenuta ai massimi livelli con ottimo dosaggio della temperatura, si scioglie, tutto è bene quel che finisce bene e sullo sfondo i dolci colli della pedemontana incorniciati dal massiccio del Grappa illuminano il giorno autunnale ormai pieno, mentre sfilano lenti i titoli di coda e il fascino discreto della borghesia continua a non fare una grinza.
Dice il regista:
“Da tempo la realtà italiana ci ha fatto ragionare sul tema della esasperata difesa di interessi, equilibri, segreti familiari. Su questo argomento abbiamo costruito un film privo di giudizi etici e politici, un’osservazione della paura di perdere tutto che può istigarci ad atti normalmente impensabili: io stesso non so come reagirei in tali situazioni…”
Lodevole sincerità ma no, non diciamo così, lasciate qualche speranza a noi ch’ entriamo!
www.paoladigiuseppe.it
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