Regia di David Nawrath vedi scheda film
Torino Film Festival 36 – Concorso Torino 36.
La sopportazione ha una soglia, raggiunta la quale non è più consentito di continuare a fare finta di nulla, nonostante sovvertire un rapporto di forza conduca su un viatico che non promette nulla di buono.
In casi del genere, non è questione di calcoli quanto di giustizia, di non darla vinta a chi si approfitta delle falle del sistema per arricchirsi spudoratamente e quando di mezzo s’insinua un rapporto privilegiato, è ancora più chiaro come i rischi, per quanto mortiferi, siano ampiamente controbilanciati dalla necessità di intervenire e darci un taglio netto.
Da anni, Walter Scholl (Rainer Bock) è al servizio di Roland Grone (Uwe Preuss), la cui attività è concentrata sugli sfratti, specificatamente nei confronti delle famiglie che vivono in appartamenti nel mirino degli speculatori.
Ormai temprato a svolgere la sua mansione con freddo distacco, Walter è costretto a rivedere drasticamente la sua posizione quando è costretto a collaborare con Moussa Afsari (Roman Kanonik), un energumeno che risolve le controversie ricorrendo alla forza bruta, e soccorre Jan (Albrecht Schuch), la prossima vittima delle mire del suo capo.
Per salvare lui e la sua famiglia, Walter si spenderà in prima persona, come mai gli era capitato in tanti anni di (dis)onorata carriera.
Atlas è un’opera prima che, al netto di alcuni limiti attribuibili all’inevitabile inesperienza del regista David Nawrath, mette in evidenza una tempra consistente, affrontando inaccettabili deviazioni del sistema sociale, direttamente connesse con la sete di denaro, per poi penetrare nel privato del protagonista e scoperchiare quei sentimenti talmente preziosi da giustificare l’improvviso moto tellurico che lo percuote.
Dunque, la figura di Walter è centrale in tutte le direzionalità intraprese, descritta e inserita nel contesto con precisione, dalle premesse, che inquadrano un ecosistema insensibile e depredato di un qualsivoglia barlume di moralità, passando per lo svolgimento, che apre un varco destinato ad ampliarsi, fino ad approdare alle conclusioni.
Questo itinerario resiste a ogni passaggio, mantenendo un’evidente tensione drammatica, che anzi tende a innalzare i suoi effetti, soprattutto laddove descrive l’indifferenza verso il prossimo, indispensabile per non logorarsi, il grigiore di quel mondo reale sempre più ostile ai cittadini, la prepotenza di chi sa di essere intoccabile e la reazione senza appello formulata pur conoscendo alla perfezione i danni collaterali che ne scaturiranno, includendo un tris di legami tra padre e figlio che forniscono le indispensabili giustificazioni a quanto accade.
Inoltre, il telaio che racchiude gli eventi è forgiato con solidità, così come il timing dello storytelling denota una mirabile consapevolezza, evitando tempi morti senza ricorrere a sbracciate inutili, con il difetto di non riuscire a tenere coperte a lungo alcune carte e di essere conseguentemente prevedibile sulla lunga distanza, oltre che aperto al tepore umano nel punto di arrivo.
Tirando una linea, Atlas vanta una sommatoria che naviga ampiamente in territorio positivo, traendo giovamento dai mali del mondo – non è possibile vivere serenamente neanche nella Germania della piena occupazione lavorativa – e sfruttando l’energia e il calore che solo i rapporti di sangue garantiscono, anche quando sono stati accantonati da tempo (per fortuna, c’è chi aspetta una vita intera pur di sfruttare quell’unica chance che gli permetta di riscattarsi).
Autorevole e compiuto, giusto un po’ arrotondato, ma nel rispetto di escamotage cinematografici assolutamente adeguati e quindi consentiti.
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