Regia di James Mangold vedi scheda film
Un film esaltante anche se dal finale amaro.
Ebbene, perdonate questo “ebbene” di tono confidenziale che non “sta bene” a inizio d’una recensione classica e consona a una pseudo giustezza stilistica ma io son spesso difforme dalla Formula 1, no, dalla forma mentis corretta, no, dalle form(ul)e espressive tipiche del giornalismo figlio non solo delle inutili facoltà universitarie quali Scienze delle Comunicazioni, bensì financo dei lenti percorsi stradali assai pedanti e didattici dei più superati, no, dei linguaggi che non viaggiano nella “highway”, perfino mentale, dello stream of consciousness indomato e imbizzarrito, giammai indottrinato e allineato a strade maestre e rette vie discutibili, anzi, che si può sbizzarrire come meglio si confà al sottoscritto automobilistico, no, auto-denominato(si) il Falò, quindi accettate perfino questa prefazione schietta, (aero)dinamica, propulsiva che poi, a fuoco lento, dopo un incipit al diesel, poco da Vin Diesel veloce e muscoloso di Fast & Furious, carburerà in maniera supersonica, vertiginosamente “guidando” spedita. Dunque, dopo questo preambolo “in folle”, (ri)partiamo in quinta, utilizzando il plurale maiestatico e sottostante appioppandovi testualmente l’assai striminzita sinossi inerente tale film da me quivi e prossimamente disaminato, direttamente estrapolatavi da Montecarlo, dall’autodromo di Imola, no, copia-incollatavi da IMDb e immessavi in corsia di sorpasso, no, semplicemente in corsivo e in linea col mio carattere dalle curve pericolose, emotivamente e metaforicamente parlando, no, in gara storica e mondiale, no, in Garamond, ah ah:
La vera storia della lotta tra Ford e Ferreri per vincere la corsa di Le Mans nel 1966.
Be’, naturalmente detta così è poca cosa la trama di Le Mans... che, in effetti, non è contorta ed è quindi abbastanza lineare come un lungo, non periglioso, ben asfaltato rettilineo senza ralenti, no, rallentatori e dossi ma lo stile flamboyant del sottoscritto, no, dell’inventivo e incendiario James Mangold la rende pregna di pathos altamente adrenalinico che riempie i buchi narrativi, no, qualche snodo troppo mainstream, totalmente polverizzando gli avversari in corsa.
Sì, perché se il grande Christian Bale doveva essere il commendatore di Maranello per Michael Mann, dapprima rimpiazzato da Hugh Jackman e poi dal concretizzatosi Adam Driver per il poco fecondo, onestamente volgare e brutto Ferrari, eccolo che, assieme al fidato suo amico Mangold, dopo Quel treno per Yuma, qui di reunion fruttifera, antecedente al posticipato e posteriore biopic appena menzionatovi sul Drake, si trova a interpretare nientepopodimeno che Ken Miles. Colui che, guidando la macchina antagonista Ford, sconfisse Enzo Ferrari/Remo Girone... capeggiato dal suo friend ed ex collega Carroll Shelby/Matt Damon. Nel mezzo dell’intreccio, Jon Bernthal as il realmente esistito manager Lee Iacocca, la moglie di Miles di nome Mollie (Caitriona Baife), il loro figlio Peter (Noah Jupe), lo stronzo, neppure troppo, eh eh, Leo Beebe (Josh Lucas), la prima Punto della Fiat creata da Gianni Agnelli (Giovanni Cirfiera), no, appunto, Henry Ford II (Tracy Letts) & company per una scuderia di attori e comprimari di classe da tagliare il traguardo d’ogni altra produzione contemporanea in merito ai motori e compagnia bella, ah ah.
Bale che per anni bramò di tornar a girare in qualche Grand Prix alla John Frankenheimer, no, con Mangold dopo il succitato remake con lui e Russell Crowe, ovverosia 3:10 to Yuma (la pellicola western, omonima ed originale con Glenn Ford fu diretta da Henry Fonda, no, Henry Ford, no, John Ford, no, Delmer Daves), e ciò doveva infatti avvenire per The Pale Blue Eye. Sottotitolato, per l’edizione italiana, I delitti di West Point ma quest’ultima pellicola ebbe in cabina di pilotaggio, no, regia, Scott Cooper. Per di più, altro regista amato da Bale e viceversa... ma non voglio essere archivistico, bensì continuare, sol un altro po’, a parlarvi di questo film fenomenale che, ribadisco, tralasciando qualche svolazzo pindarico di matrice troppo blockbuster e annessi alcuni dialoghi retorici un po’ dolciastri, oltre che inevitabilmente prevedibili, personalmente già ascrivo nella mia memoria da cinefilo enciclopedico, oh oh.
Le Mans ’66 andava solamente scorciato, infatti i suoi 152 minuti circa di durata sono esagerati ma è un peccato veniale. Sceneggiato da Jex e John-Henry Butterworth assieme a Jason Keller, fotografato magnificamente da Phedon Papamichael, sorretto da prove attoriali egregie (gigantesca quella di Bale, per nulla malvagia quella di Damon), malgrado la sua appena accennatavi prolissità, scorre che è una bellezza. Il merito è di tutto il team vincente, a partire innanzitutto da Mangold. Director che quasi nessuno cita e che invece in molti considerano sol un “mestierante”. Ma per piacere.
Sono pochi i registi in grado di districarsi fra i vari generi cinematografici con indubbia bravura come Mangold. E sapete qual è la verità?
Indiana Jones e il quadrante del destino è quasi un capolavoro.
Quindi, ora salutatemi a sor(r)ata e lasciate perdere la settima arte. Non fa per voi, perdenti!
Io sono il Falò, essere imprevedibile, imprendibile, sostanzialmente un bello e dannato? No, un nostrano Bale con una faccia come il culo che vale il prezzo del biglietto.
A Rush di Ron Howard, no, al rush finale, spunta il Falò e vi lascia indietro.
di Stefano Falotico
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