Regia di Valerio Zurlini vedi scheda film
Uomini al confine, di fronte al nulla. Ma non è la vita, questa?
Sinossi
Un giovane ufficiale, il tenente Drogo, viene inviato per servizio nella fortezza Bastiani, poderosa e severa costruzione ai margini del deserto, ai confini orientali dell’Impero. Oltre c’è un non identificato Regno del Nord, mentre i Tartari sono i nemici tanto attesi, un tempo abitanti del deserto, ora sfumati nell’orizzonte mitico delle sconfinate steppe della Mongolia.
Ufficiale di prima nomina, Drogo avrebbe voluto una sede più comoda, vicina alla famiglia e alla fidanzata, ma la disciplina impone obbedienza, così accetta di buon grado l’incarico di alcuni mesi, brigando, una volta lì, per poter essere trasferito quanto prima. Nella fortezza Bastiani resterà trent’anni, un intoppo burocratico ha impedito il suo trasferimento e da allora non ha più tentato di andar via, prigioniero di un incantesimo, come tutti gli altri che attendono di potersi misurare con i nemici, quei Tartari indomiti e sconosciuti. Ma i giorni passano senza che nulla accada. Nel frattempo il tenente, promosso capitano, si ammala gravemente e viene trasferito a morire altrove, senza essere riuscito a combattere. Quando, finalmente, si vedono i nemici all’orizzonte, lui è ormai lontano. Ma è un miraggio anche stavolta? Non lo sapremo mai.
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Il libro di Buzzati del 1940, il film di Zurlini del 1976, un successo editoriale e un cult cinematografico che coprono più di mezzo secolo, se ancora oggi guardiamo o leggiamo di quella Fortezza Bastiani con l’ipnotico stupore che coglie nel seguire quei destini come risucchiati dal deserto.
Già il titolo, un colpo d’ala di Buzzati: due parole che lasciano il segno, perché “deserto” è pur sempre il luogo attrattivo per eccellenza, un topos dell’immaginario, un mistero incastonato nel reale.
Di sabbia, di roccia, di sale, comunque lo pensiamo, dal Sahara ad Atacama, è assenza di vita o memoria di troppa vita che ha smesso da tempi immemorabili di comunicare; il silenzio è la sua voce.
E “Tartari”, un nome antico, mitico, favole infantili lo contengono, decine di gruppi etnici sparsi in Eurasia sono tutti Tartari, associare quel nome al deserto sembra d’obbligo.
Questi Tartari sono attesi come una spasmodica necessità, il loro arrivo darà vita alla grande battaglia per cui i plotoni della fortezza continuano ogni giorno ad esercitarsi in cortile, scorrazzare fra nuvole di polvere intorno ai ruderi di quel sito a sud dell’Iran che Zurlini scelse dopo un terribile terremoto.
Gli ufficiali spiano ogni giorno dagli spalti dell’avamposto con i cannocchiali l’orizzonte, si celebrano tutti i rituali della disciplina militare, senza tregua, si rispettano le gerarchie, gli stivali sono lucidi, le uniformi perfette, il linguaggio comune è quello dell’ufficialità, se qualcuno prova a deragliare verso una comunicazione di tipo umano diventa un alieno, irriconoscibile al gruppo.
Se il cinema ha la missione di “fissare il fuggevole dell’esistenza”, come sosteneva Ricciotto Canudo, e la scrittura non è da meno, nel deserto senza Tartari l’esistenza trova la sua forma perfetta, nulla qui sfugge, la sistematica ripetitività dei rituali pretende di tenere fermo il tempo, inchiodarlo in un’attesa che a nessuno sembra assurda.
Il maggiore Ortiz (Max von Sidow) figura amichevole dallo sguardo umano, è lì da diciotto anni, e ancora aspetta.
Altri, più vecchi o più giovani, sono come calamitati dallo stesso sogno, perso il contatto con la realtà sono inglobati fra quelle pietre.
Zurlini traccia ritratti clamorosi, uno spettro concentrato della tipologia umana in uno spazio di pietra affacciato sul nulla.
Il cast è di nomi stellari, a partire dall’unica donna sulla scena, all’inizio, la madre di Drogo, Lilla Brignone, che sveglia il figlio il giorno della partenza.
Donna di antica nobiltà mitteleuropea, di severa e materna compostezza, sparirà subito dalla scena come tutto il resto del mondo reale. La fidanzata è poco più che una comparsa, e anche lei finirà nella nebbia.
Il mondo di Drogo sarà quello maschile della fortezza, fino alla fine.
Trarre un film da quel libro ormai famoso era un progetto, negli anni settanta, caldeggiato anche da Antonioni e altri nomi famosi.
Zurlini riuscì, merito soprattutto di Jacques Perrin, Drogo, che si spese in prima persona.
Drogo è un giovane bello, vigoroso, formato dalla severa disciplina dell’Accademia; figure come la sua hanno popolato tanta narrativa negli ultimi due secoli, in ogni angolo dell’Europa letteraria.
La figura del giovane portatore di ideali, di prospettive fiduciose di vita e ambizione non disgiunta da un sano amor patrio ha dato vita a figure indimenticabili.
Ma Drogo e compagni della fortezza sono altro.
Buzzati e Zurlini collaborano alla definizione di una nuova tipologia di eroe. La lezione di Kafka non è passata invano. In fondo, quell’attesa infinita, inutile, assurda, è la stessa dell’infelice Franz, impiegato alle Assicurazioni, che scriveva racconti nel tempo libero.
Origini diverse, la stessa impotenza.
Il tempo uno lo immagina infinito, il domani è una promessa in cui crediamo sempre, in alternativa si potrebbe decidere per il suicidio.
Dunque i Tartari arriveranno, basta crederlo, non sperarlo, crederlo, e il gioco è fatto.
Il resto del tempo è bene occuparlo in preparativi per il grande giorno, mai che l’arrivo ci colga impreparati!
La galleria di uomini della fortezza:
Gasmann è il comandante umano ma ingabbiato da un ruolo che non lascia margini;
il generale Noiret è uno svagato, distratto uomo di potere su cui la vita degli altri scivola inosservata;
Gemma è il cattivo di turno, frustrato dalle sue basse origini, convinto che il riscatto passi per il suo impettito senso dell’ordine; di Ortiz / Max von Sidow abbiamo parlato, nei suoi occhi chiari che fissano Drogo c’è consapevolezza, dolcezza paterna. Non può che regalarsi un colpo di pistola.
Trintignant è il medico della truppa, il più vero, camice aperto, sigaro spento in bocca, occhiali sulla fronte, consapevole. E’ un medico, non può abbandonare questi uomini al loro destino. E’ il sano in un mondo di pazzi o viceversa? Chi mai può dirlo?
E poi non manca l’eroe romantico, Terzieff, sofferente ai polmoni ma indomito nella neve per la spedizione sul confine.
Il Deserto dei Tartari è una metafora?
La vita che si vive nell’attesa di qualcosa che non avviene mai, progetti che non si realizzano, desideri che non si appagano, incontri che scompaiono nella nebbia.
Certo, forse è una metafora, ma che importa?
Al lettore /spettatore non servono etichette, l’immersione in quegli spazi è totale, il colore ocra uniforme delle mura nel contrasto con l’eleganza delle divise costringe a farsi domande sull’inutilità del vivere.
Un giorno rispose Leopardi, parlando del vecchio che, carico di un pesante fardello, arriva sull’orlo del precipizio, orrido, immenso “… ov’ei precipitando il tutto oblia.”.
Come Drogo, smagrito, capelli grigi, sofferente, che china il capo sul petto.
I Tartari forse non arriveranno, ma la musica di Ennio Morricone ci salverà.
https://www.youtube.com/watch?v=RMN4meg5_xA&list=RDRMN4meg5_xA&start_radio=1
www.paoladigiuseppe.it
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