Regia di Matthieu Delaporte, Alexandre de La Patellière vedi scheda film
La chiusura delle sale cinematografiche, lo scorso febbraio, una fra le tante azioni comprese nel tristemente noto termine "lockdown", mi travolse mentre stavo per vedere "1917" che già dal titolo anticipava la drammaticità di un morbo che avrebbe spazzato via milioni di persone: la guerra. A quelle persone cadute nelle trincee o nei sentieri di montagna era facile associare coloro che erano deceduti nel proprio letto, presi dalla febbre spagnola che mietè anche più vittime del coevo conflitto.
Ad otto mesi dal quel giorno ho ricevuto ancora una volta l'annuncio della chiusura nello stesso cinema e benché il film proposto fosse più leggero del precedente non ho potuto trattenere una risata sconsolata, non tanto per la coincidenza, quanto per il titolo proposto "Il meglio deve ancora venire", per una volta fedele all'originale francese "Le meilleur reste à venir", che suonava come una sarcastica beffa in giorni di serrande abbassate. I tempi migliori verranno ma allo stato delle cose il titolo del film sprigiona involontariamente una tempesta emozionale che va in ben altra direzione, verso l'assuefazione alla stanchezza e alla sconfortante rassegnazione. Almeno nel breve termine credo piuttosto che "il peggio debba ancora venire' e forse lo crederebbero anche i registi Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte se si apprestassero a mettere in scena il racconto in questo momento. Il film è arrivato con discreto ritardo nelle nostre sale, svuotate dal Covid, mentre era già uscito in quelle di Francia lo scorso dicembre dopo la presentazione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2019. Cinematograficamente parlando sembra di disquisire di diversa era geologica. Se dirigessero in questo 2020, spartiacque per il sistema cinema di ieri e quello di oggi, forse l'ottimismo sarebbe senz'altro minore anche se, va detto, dietro la verve ironica iniziale il tema è andato lentamente spogliandosi dei toni briosi della commedia per lasciare spazio al dramma della parte finale.
Nella prima parte, frizzante, giocata sugli equivoci e sulle reticenze, César (Patrick Bruel) costringe il compassato amico di una vita Arthur (Fabrice Luchini) ad affrontare una mezza dozzina di avventure destabilizzanti, una convivenza forzata, ed una serie di viaggi allo scopo di esaurire una lunga lista di cose da fare prima della morte. Arthur opterebbe per la lettura di Proust ma Cèsar è di tutt'altro avviso e preferirebbe lasciare Proust al letto d'ospedale e far baldoria in un night club dove, possibilmente, rimorchiare qualche compiacente fanciulla. Sull'equivoco di una sentenza di morte per cancro che lascia solo alcuni mesi di vita i registi mettono in scena le schermaglie tre due amici cinquantaseienni che sembrano il sole e luna, tanto sono diversi nell'approccio alla vita. César, non ha combinato nulla negli anni, ha delapidato una fortuna, è passato da un letto all'altro ed è vissuto come se non ci fosse un domani con il gaudio spensierato di chi non è mai maturato. Di ben altra pasta Arthur, ricercatore universitario, noioso, infelice e morbosamente attaccato all'anello di matrimonio di Virginie, l'ex moglie che l'ha lasciato da tempo per un altro uomo. Tra equivoci, screzi e battute scorrette ("Lui è ebreo sefardita e comunista, non crede più. Io? Ebreo ebreo, ashkenazita. Ogni tanto al tempio e poi sono apposto per un pezzo") il film si dirige verso la stretta finale in cui l'amicizia si spezza, si ricompone e poi si eleva a sublime ricordo di un passato che se ne va per fare posto, finalmente, ad un futuro diverso e migliore. Che sia la pace di chi ha fatto i conti con se stesso e può lasciare la vita senza rimpianti o la vitalità nuova di chi ricomincia tutto da capo mettendo in discussione il suo modus operandi e le proprie zone di comfort, in fondo, non ha importanza. César e Arthur vanno verso la giusta direzione, prendendosi i loro tempi, applicando i loro metodi per percorrere la strada che permetterà di recuperare stimoli ed affetti.
Patrick Bruel grande mattatore nella parte dell'eterno Peter Pan mentre Fabrice Luchini se la cava bene anche se interpreta in maniera poco credibile un personaggio di dodici anni più giovane. Regia brillante nella prima parte che tende a tracimare nel sentimentalismo nella seconda dove a salvare la situazione ci pensa qualche buffonata di César e una divertente lettera testamento nella quale il de cuius lascia al suo erede tutta la propria ardimentosa filosofia di vita. Questa, sì, adatta ai tempi che corrono.
Piacevole per una risata in compagnia, meglio per un sorriso in GroupWatch.
Cinema Teatro Santo Spirito - Ferrara
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