Regia di Susanne Bier vedi scheda film
Il marasma di commenti, unito alle folli manifestazioni di squilibrati che sembrano aver preso spunto dalla pellicola in questione per iniziare una challenge in cui i partecipanti sono costretti a bendarsi per svolgere le azioni più svariate, hanno provocato in me la curiosità di recuperare questo film tanto discusso.
La cecità è la condizione di disagio in cui i protagonisti di questo film, proiettati in un futuro apocalittico, sono costretti a sottostare per sopravvivere, laddove ogni sguardo potrebbe essere l’ultimo. Vittime di entità non identificate per volontà di una sceneggiatura che sembra voler rivolgersi ad ogni spettatore in modo diverso in quanto il pericolo scaturisce dalla fantasia di chi guarda, che finisce per animare le paure proprie, quelle più intime.
L’impostazione della rappresentazione di una sceneggiatura così congeniale è la dimostrazione che non è necessario creare un soggetto univoco per generare l’ansia associata alla costante sensazione di minaccia che incombe per tutta la durata della pellicola. Non credo sia errato interpretare la scelta di non dare identità al soggetto “spaventoso”, come una denuncia verso la società e ciò che essa è diventata; come se gli occhi non fossero ancora pronti per ricevere le immagini di quella che è una collettività distorta e irrecuperabile.
La prova di Sandra Bullock è encomiabile. Ha la capacità di trascinarsi addosso l’intera pellicola, finendo per essere non solo il cardine intorno al quale gira tutta la trama ma anche il nucleo dentro il quale convogliano tutte le sensazioni espresse attraverso una prova attoriale notevole.
Oltre a questo però, e all’apprezzabile sviluppo del soggetto, il film manca del mordente necessario per renderlo attraente. Ci troviamo di fronte ad un opera pregna di identità femminile, che la regista Susanne Bier anima con il senso di protezione costante e continuo che alterna da un personaggio all’altro ma priva di una spina dorsale emozionale: chi guarda resta indifferente e non riesce a lasciarsi coinvolgere totalmente.
Il finale, forzato di speranza, è frettoloso e ridicolo. Finisce per riportare l’essere umano nelle medesime condizioni iniziali, ma stavolta l’adattamento è più concreto, e forza di cose necessario finendo per smascherare la speranza di cui sopra che, in fin dei conti, non è altro che radicata rassegnazione.
P.S. John Malkovich è sempre immenso. Anche se per poco, sempre immenso.
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