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Parasite

Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Parasite

di lussemburgo
8 stelle

Sembra che dal film, premiato con 4 Oscar 2020, tra cui l’inedita abbinata di Miglior Film e Miglior Film straniero, possa essere tratta una serie (americana) e sia stata brevemente commercializzata una copia in bianco e nero, voluta dallo stesso regista per un maggiore effetto straniante, con lo slogan “nessuno è bianco o nero”. Ma forse una versione in 3d renderebbe maggiore giustizia a un film costruito sulla profondità di campo e sulla geometria degli spazi, delle coordinate di spostamento degli individui e sui rispettivi vettori. Perché, col suo trionfo dell’apparato scenico, Bong Joon-ho esalta la qualità di una regia che si traduce in mise en espace di un senso, con movimenti variabili, traiettorie parallele e confluenti dei personaggi nello spazio inquadrato, da cui deriva la tensione drammatica della vicenda. Che, in effetti, si traduce in espropriazione di un luogo e nella narrazione della motivazione di questo comportamento.

E la giustificazione di ogni movimento narrativo(che poi diventa anche fisico) risiede nella differenza di classe dei vari personaggi, con nuclei familiari a confronto, tra gli alto-borghesi che vivono sopra il livello stradale, con una casa fatta di affacci sul verde e sul cielo, pareti finestrate come un costante spettacolo cinematografico di magnificenza e autocelebrazione. A poco a poco illoro spazio domestico viene occupato, materialmente quanto simbolicamente, da una famiglia proletaria, laquale invece abitasulla strada tanto da avere un buio vicolo di città con il retro di negozi quale unico elemento visibile, con scene di sgravio fisiologico sul bordo della finestra come gag ricorrente e il rischio diallagamento a seguito di un forti acquazzoni.A questo duplice fulcronarrativo, che pare occupare l’intero ambito del racconto, si aggiunge un terzo gruppo, a sorpresa, un altro ambito familiare e un nuovo contesto abitativo: l’ipogeo dei sotterranei della villa da tutti concupita. Questa intrusione porta non solo ad uno scombussolamento delle geometrie, psicologiche e vettoriali, definite, ma anche a una deflagrazione della commedia degli equivoci che si stava delineando in tragedia sociale, con un rimescolamento dei ruoli e dei toni, dei luoghi e dei rispettivi abitanti, di personaggi e di disposizioni territoriali.

Il raggiro per sopravvivenza economica dell’inizio del racconto, con l’astuto ma in fondo tenero inganno da parte dei membri di una famiglia proletaria che si insinua negli interstizi delle esigenze di subordinazione e di ingenuità dei ricchi possidenti, agiati quanto presuntuosi, cambia senso a metà film, abbandonando presto i toni della leggerezza comica. Com’è tipico del cinema orientale, e coreano in particolare, i film mutano genere e variano di tempo durante il loro corso, perdono la definizione iniziale e sostituiscono o modificano iprotagonisti per trasformarsi in coacervi di stili e stilemi, spesso su base prepotentemente melò a sviluppo noir, indipendentemente dal materiale di partenza. Così anche questa novella satirica si tramuta in dramma, con morti e assassinati, esplosioni di violenza improvvisa e sferzate oniriche, salti temporali e versioni alternative di una realtà già ambigua che, introdotta da un dato apparentemente naturalistico, devia nell’iperrealismo, deflagra nel thriller e scivola nel fantastico.

La regia, coordinando movimenti e spazi, segue i personaggi a macchina fissa o con carrelli laterali ad accentuare le geometrie degli interni nel confronto con l’esterno, guardando i suoi protagonistiguardare ed invidiare altre figure, facendoli nascondere in bella vista o nell’altrui distrazione, con tempi e modi da screwball ed effetti slaptisck. Delineati per piccole caratterizzazioni, a tratti chiari come dei fumetti, i personaggisi distinguono tra giovani da settore terziario, nel ruolo di insegnanti (di inglese e di sostegno), e i genitori, con compiti più manuali (da ambito primario o secondario di domestica e autista), con l’impalpabile e implacabile odore come segnale di una provenienzache non si riesce a camuffare del tutto e che solo i ricchi percepiscono, insinuando un’incolmabile differenza.

Perché, come già Chabrol, Bong Joon-ho mette in scena una lotta di classe che non ha soluzione pacifica. Ma la dinamicaconflittuale, però, ha perso ogni connotato ideologico, prosegue per vie traverse il travaso sociale, diventato così solo aspirazione di affrancamento economico, indipendente dalla consapevolezza della propria origine o posizione, ed estraneoa qualsiasi carattere meritocratico. Le regole della società paiono invariabile e inaccettabili, quindi vanno solo aggirate, ingannate senza pretendere di mutarle bensì trovando interstizi, spazi liberi e vacanti in cui insinuarsi alla conquista di una posizione di vantaggio, per poi completare l’occupazione con l’allargamento dell’operazione ai parenti o ai prossimi. Riducendo ogni prospettiva sociale all’artificio e ogni orizzonte solidale al mero ambito dei congiunti, il regista canta la morte della lotte di classe e la sua trasformazione in grossolana sopravvivenza, nella trasformazione di ogni ipotetico progressismo in egoismo diffuso e solipsistico. La società ha un palinsesto immutabile, rigido come le mura di una casa,e la trasformazione sociale non è altro che una generalizzata guerraall'accaparramento delle limitate risorse che il mercato mostra, senza davvero offrirle, in una contesa letteralmente all’ultimo sangue per spostarsi all’interno dei confini del benessere, nel ricovero tra le pareti nemmeno troppo accoglienti di un’abitazione.

Il registaaccenna ad un lieto fine di ricongiungimento e riconciliazione a risarcimento del danno subito e inflitto e del sangue versato, ma lo allontana in un contesto quasi distopico, costruisce una conclusione ipotetica spostata nel tempo e costretta nello spazio dei medesimi luoghi, lasciando lo spettatore nell’incertezza forse onirica di un’aspirazione inconcludente quanto riconoscere figure nella mutevolezza delle nuvole.

L’unica terrena, ferma, invariabile certezza sono i luoghi e gli spazi, occupati e occultati, vissuti o negati, sofferti e sprecati, che di volta in volta i protagonisti abitano e nei quali si muovono, coordinati da una regia che si fa organizzazione di aree e di traiettorie, di percorsi e vite, linee parallele che convergono in una conflittualità che crea caos e disarticola la gerarchia sociale nella sola vicinanza degli opposti, nel rimescolamento di alto e basso, di sfruttato e sfruttatore, di ospite e parassita dalla distinzione instabile. Ma è questa stessa definizione che si sfuma nella coabitazione ricercata e forzata, tra chi desidera e chi si approfitta, tra chi vende e chi si vende, nel mercato incostante tra domanda e offerta.Movendosi con sarcasmo e acida ironia nella freddezza di inquadrature geometriche, Bong Joon-ho non parteggia per i suoi personaggi - anche se il ritratto dei facoltosi proprietari rimane troppo acido per non essere satirico - e li guarda massacrarsi con oggettivo divertimento,mentre descrive, sogghignando con divertita e preoccupata distanza, un microcosmo da formicaio, un “vivarium” a grandezza di casa e di società.

 

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