Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
Cesare Zavattini è morto, e con lui la sua poetica sui poveri decantati in tanti film. Finito ogni idealismo e ogni ideologia non resta che la lotta, tra poveri aspiranti ricchi. Altro che di classe! I poveri del terzo millennio vivono come topi e scarafaggi negli scantinati, soggetti a inondazioni e con la wi-fi a rischio. La sacra famiglia trova lavoro solo con l’inganno e il turlupinare. Quando incontrano altri poveri, più devoti e romantici, costretti a stare sotto (metafora semplice ma esemplificativa) comincia la lotta per la sopravvivenza. L’unica plausibile e possibile quando ti tolgono quel poco che hai “conquistato”. Homo hominis lupus di Hobbes è sempre attuale e l’autore sudcoreano lo aggiorna ad un presente prossimo venturo.
La famiglia del Signor Ki e della ex governante Moon con il marito Geun racchiudono l’essenza di una umanità disperata e feroce. Mentre i ricchi sono imperturbabili, perfetti, sottilmente perversi e con la puzza sotto il naso. La paura delle due Coree, i bunker, il divario nord-sud è solo un pretesto.
Parasite parla di una situazione che, se non lo è già, diventerà condizione permanente. Lo stile consolidato (vedasi il seminale Snowpiercer) di Boong Joon-Ho mescola con grazia commedia, grottesco e dramma nero; firma un capolavoro perché, oltre i contenuti portanti, mischia alto e basso con sapienza e geometria, pop e post moderno. E inoltre ha il merito di sapersi distinguere dalle pesantezze stilistiche di alcuni suoi connazionali. Cita da un punto di vista cinematografico, chissà, la commedia italiana e il Gomorra di Garrone (Signor Ki ripreso dall’alto esce dalla strage a ralenti). Sembra, soprattutto, di rileggere i versi finali del Qoelet. L’apocalisse (sociale) è arrivata, non ce ne siamo ancora accorti.
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