Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
Forse è questo che Bong vuol dirci, che se riusciamo a ridere di cose del genere non abbiamo più speranza. E su questo non possiamo che concordare.
Un film che lascia perplessi, questo Parasite del sud-coreano Bong ecc. premiato a Cannes 2019 con Palma d’oro.
Perplessità che nasce dalla domanda: capolavoro o marchetta?
Non scandalizziamoci, se un film raccoglie, già all’uscita di sala, giudizi del tutto contrastanti, e poi questi giudizi continuano sui siti di critica cinematografica più diffusi e accreditati, è giusto porsi qualche problema che non si basi solo sul gusto personale.
Si sottolinea da parte di tutti l’ottima fotografia (d’accordo), la precisione nella ricostruzione d’ambiente (vero) l’ironico soffermarsi su dettagli capaci di suscitare divertimento e risate (su queste, in realtà, sono scettica, c’è ben poco da ridere in Parasite), la carica di denuncia sociale che connota ogni minimo angolo del film.
Bene, anzi male, perché dovrebbero bastare a fare di un film un buon film, e invece c’è qualcosa che non convince.
Forse è tutto molto scontato?
Vero, che il mondo sia diviso in ricchi e poveri in modo così plateale, addirittura esibito senza problemi, è cosa nota forse dalla fine dell’età della pietra, quando l’uomo smise di dare la caccia ai mammuth e si dedicò alla sua proprietà privata.
Dunque non bisogna parlarne più?
No, Dio ce ne guardi! Parliamone, invece, ma non pretendiamo di divertirci mentre lo facciamo.
Oppure, se proprio non riusciamo a non riderne, troviamo almeno una formula originale.
Cosa che in Parasite manca.
Mentre c’è abbondanza di quello che gli antichi chiamavano fascinum, o i poeti del ‘600 “meraviglia” (è del poeta il fin la meraviglia… ricordate?).
E Bong affascina con le sue trovate, le spara grosse, ci trascina con sé in un turbillon frastornante, e così metà platea grida al capolavoro, l’altra metà resta inebetita.
Nell’insieme però non si resta indifferenti, la confezione è ottima, i passaggi dalla commedia alla tragedia e ritorno sono risolti con molto mestiere, la mano del regista è indubbiamente superlativa.
Resta solo quel piccolo angolo di cuore dove un capolavoro s’incunea e che stavolta resta vacante. Come mai?
Possiamo raccontare a grandi linee la storia di queste due famiglie senza temere spoiler?
Si, è una storia vecchia, millenaria.
Quartieri alti, architetti giapponesi al lavoro, automobili con autista, governante di casa a tempo pieno, tutors di ogni genere per rampolli destinati a grandi carriere.
Quartieri bassi (e in Oriente i bassi sono davvero bassissimi, reggono il confronto solo le favelas brasiliane), ci si arrangia per sopravvivere, ogni mezzo è lecito, perfino inventarsi competenze adatte a farsi assumere dai ricchi per tutte quelle mansioni di cui hanno bisogno: guidare l’auto, lavare, pulire, cucinare, insegnare l’inglese alla figlia pluribocciata, il disegno al piccolo-peste-odiosa che nessuno rimprovera mai.
Come tutto ciò avvenga, un passo dopo l’altro, fa trascorrere metà film.
Nell’altra metà assistiamo al tracollo di questo castello di carte.
Il problema è nel come questo avvenga. E qui entriamo nella parte del film meno credibile, con trovate splatter o da grand guignol che dovrebbero suscitare la risata mentre in realtà suscitano una gran pena.
Forse perché di certe cose non è bello ridere, senza per questo peccare di seriosità.
O forse è questo che Bong vuol dirci, che se riusciamo a ridere di cose del genere non abbiamo più speranza.
E su questo non possiamo che concordare.
www.paoladigiuseppe.it
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