Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
In un fatiscente seminterrato di Seul abita una famiglia alquanto atipica che vive di espedienti : il padre Ki-taek (Song Kang-ho), la moglie Chung-sook (Jang Hye-jin), il figlio Ki-woo (Choi Woo-shik) e la figlia Ki-jung (ParkSo-dam). La famiglia è felice, nonostante la loro abitazione sia stretta, buia e inospitale, che rischia di allagarsi ogni qual volta si mette a piovere un po’ più forte e che per usare Internet si deve sperare che i vicini di casa non abbiano cambiato la password per la connessione Wi-Fi. La famiglia Park, invece, vive in una grande villa con giardino e con bunker sotterraneo annesso. Il signor Park (Lee Sun-kiun) va a lavoro con una lussuosa limousine guidata da un autista impeccabile (Keun-rok Park). La moglie (Cho Yeo –jeong) bada ai suoi vizi perché alla casa ci pensa la fidata governante Moon-gwang (Lee Jung-eun). Possono inoltre permettersi di avere degli insegnanti privati per i figli, Da-hye (Jung Ziso) e Da-song (Jung Hyeon-jun). Le due famiglie incrociano i loro cammini quando Ki-woo riesce a farsi assumere per dare delle lezioni private a Da-hye. Da quel momento, i poveri squattrinati mettono in atto un piano che prevede l’impiego di ognuno di loro nella villa al posto degli abituali lavoranti. Una volta portato a compimento il piano, la famiglia scopre che nel bunker, che si trova sotto il seminterrato della villa, la vecchia domestica teneva nascosto il marito (Myeong-hoon Park) che aveva perso casa e lavoro. Un fatto che scombina il proseguimento lineare del loro piano e che insinua nel loro rapporto con i Park degli elementi pericolosi imprevisti.
“Parasite” di Joon-ho Bong (Palma d’oro a Cannes) è un film dalla natura espansa per almeno due ordini di motivi. Primo, perché dietro la limitatezza che sembra caratterizzare la messinscena domestica, offre una lucida e impietosa analisi su quell’incubatore di violenza sotterranea che è il contemporaneo mondo globalizzato. Secondo, perché si sviluppa seguendo timbri narrativi differenti e amalgamando in maniera raffinata diversi generi cinematografici. Si inizia come una commedia familista, con il tragico e il comico che fanno sentire discretamente la loro vicendevole presenza (alla Hirokazu Koreeda). Poi assume le forme di un thriller molto sui generis, indirizzato da un piano per la sopravvivenza condito da diversi risvolti enigmatici (alla Michael Haneke). Quindi, continua giungendo a degl’inaspettati eccessi ed iperboli di stampo “tarantiniano”. Si conclude, infine, ritornando calmo, riflessivo, quasi elegiaco, come una favola che voleva il finale più appropriato alla sua morale di fondo.
Protagonista indiscusso, ma non accreditato del film, è la casa in quanto tale, intesa come luogo fisico che diventa incubatrice naturale delle ansie e dei problemi di chi la abita, custode gelosa degli oggetti simbolo della società dei consumi, insomma, un’entità a sé stante capace di darci notizie sullo status sociale dei proprietari. In “Parasite” esistono due case profondamente diverse tra loro che connotano livelli ben distinti di dignità abitativa. In quella della famiglia di Ki-taek si sta stretti e bisogna conoscere la password del Wi-Fi dei vicini per poter accedere alla connessione Internet ; quella della famiglia Park, invece, è talmente grande da poter giocare agli indiani e in tutti gli spazi gli iPhone possono godere di prestazioni strabilianti. La prima è buia perché c’è solo una piccola finestra che dà sulla strada ; la seconda è talmente piena di vetrate che ti permette di toccare le stelle dal divano. L’una è posta sotto il livello della strada e consente di convivere con tutti i rumori della città ; l’altra ha un bunker sotterraneo che può custodire dei segreti che neanche i proprietari conoscono. Ki-Taek e la sua famiglia sono partecipi del degrado urbano in questa abitazione in balia delle piogge e del piscio degli occasionali ubriaconi ; i Park ne sono talmente lontani da distinguerne distintamente l’odore “fastidioso” quando arriva. Differenze forti, stridenti, che servono a generare in forma (neanche tanto) simbolica un conflitto sociale latente tra chi è ricco e si allinea con naturale scioltezza all’ordinario andamento delle cose del mondo, e chi, in qualsiasi modo, vorrebbe finalmente corrispondere alle aspettative prodotte in serie dalla società dei consumi. Un conflitto che alberga negli iniqui protagonismi sociali e che Joon-ho Bong (e qui sta la grandezza del film, a mio avviso) veste di ambigua inconsapevolezza. Perché i suoi attori sembrano non sapere affatto che ogni giorno si alzano per combattere sempre la stessa battaglia : chi per difendere e conservare la propria posizione sociale, e chi per scongiurare il demone della precarietà cercando di prendersi qualche giustificata rivincita. Una battaglia che quando fa incrociare in una maniera irreversibile destini opposti rende labile il confine tra chi vive da parassita e chi ne subisce gli effetti incontrollati.
I piani, anche se ottimamente congegnati, presentano sempre qualche intoppo imprevisto, qualcosa che interviene a dare al percorso prestabilito delle deviazioni indesiderate. Delle vite organizzate rigidamente, intorno a delle idee precise che si vogliono, non solo realizzate, ma anche immodificabili una volta che questo è successo, corrono sempre il rischio di essere in balia di quel caso ingannatore di cui si ostinano a non voler ammettere l’esistenza. Queste vite, sono qualche volta il frutto della necessità impellente di darsi una disciplina riconoscibile perché connotate dalla mancanza concreta di alternative fattibili. Più spesso, invece, sono il prodotto dell’avidità umana, della cultura esasperata dell’accumulo, della perdita del senso del limite. Quasi sempre, questi due modi ben distinti di incamminarsi lungo le strade della vita, che iniziano un percorso parallelo, ognuno con dei moventi psicologici e sociali propri, finiscono per incrociare l’un l’altra i rispettivi cammini fino a generare un’osmosi che le rende di fatto indistinguibili. È in questo modo che l’autore coreano imbastisce una raffinata analisi politica sullo stato di salute sella società contemporanea (non solo di quella coreana, di indole autoritaria e oscurantista). Una società che tende a controllare e a rendere controllabile ogni individuo, a generare necessità indotte che vogliono essere esaudite, aspettative che non possono rimanere inevase. Una società attraversata da profonde iniquità sociali, che ad ognuno sembra assegnare un ruolo prestabilito, ben delineato nelle sue specifiche funzioni sociali, unruolo che nessuno può mettere in discussione per il buon andamento dell’intero ingranaggio. Deragliare da questo disegno sociale può significare mandare in tilt il piano di controllo dettagliatamente disciplinato : rischiare di trasformare la passività acritica di ognuno in un deflagrante conflitto di classe.
Architrave di questo film così congegnato è naturalmente la famiglia composta dai quattro squattrinati, è attraverso loro che Joon-ho Bong coniuga la narrazione condita di diversi momenti esilaranti con la forma cinema che può dargli implicazioni speculative che possono andare molto oltre il mero oggetto rappresentato. Questa famiglia è costretta a darsi un codice comportamentale ben definito per cercare di affrancarsi dalla condizione di miseria in cui si trova. Per conquistarsi un lavoro, si mette a praticare l’inganno finendo così per imbastire un gioco crudele che produce solo vittime innocenti. La forza del film sta proprio in questo graduale mutamento della famiglia, che non disperde la sua originaria bontà d’animo, ma che porta a un tale livello di perfezione il suo piano di ascesi sociale da trasformare la pacata bonarietà che la caratterizza in un incontrollato strumento di morte. Questo è reso evidente dagli eccessi splatter che fanno capolino nel film, che Joon-ho Bong usa con divertito senso del paradosso per far implodere in un tumulto di rabbia inesplosa le forme anestetizzanti della quiete domestica. Le barriere formali cedono il passo all’evidenza delle crepe, le vene si aprono e iniziano a grondare sangue, gli istinti ferini si fanno beffa della ragione calcolatrice, la felicità comprata a buon mercato diventa una cosa contro cui occorre prendersi una beffarda rivincita.
Joon-ho Bong mette così in scena l’esplosione virulenta del conflitto sociale mostrandocene un’amara verità : che la lotta condotta con sagace intelligenza dai poveri contro i ricchi non può che passare per la guerra fratricida tra chi cerca di salvaguardare innanzitutto la propria sopravvivenza. Un grande film, che spesso suscita dei benevoli sorrisi, ma che alla fine ti induce a riflettere amaro intorno allo stato delle cose.
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